Pausa pranzo. Mensa. Di fronte a me uno di quelli che catalogo automaticamente nel gruppo adolescenti immutabili: 45 anni e continuano a nutrirsi di pizza, hamburger e patate fritte con ketchup, praticamente le stesse propensioni alimentari di un quindicenne brufoloso, nessuna evoluzione delle papille gustative né della cultura nutrizionale.
Mi concentro sui miei spinaci lessi. Dopo aver scacciato l'idea che potrebbe aver ragione il tipo di fronte, torno a pensare alla serata passata il giorno prima al Globe Theatre a Villa Borghese, una ricostruzione del teatro dove Shakespeare allestiva le sue opere a Londra.
L’ambientazione è sicuramente d’effetto, e per dieci miserrimi sbiuri puoi acquistare un biglietto per la platea, ti siedi per terra, se lo sai in anticipo ti porti un cuscino da casa per rispetto alle tue terga, altrimenti cazzi tuoi, e ti senti subito proiettato ai tempi d’oro del teatro elisabettiano. Devo dire che non l’ho mai amato il teatro, men che quello shakespeariano. Tutte le rappresentazioni che ho visto finora (ma si contano sulle dita di due mani) le ho trovate forzate, non più attuali, con testi a volte difficili da seguire, personaggi che mi ci perdo, movenze pompose, dizioni troppo caricate, trame basate su equivoci scontati e non realistici. Non riuscivo proprio ad entrarci dentro.
Questa volta era in scena La Tempesta, protagonista assoluto Giorgio Albertazzi, vegliardo che riesce seppur da immobile a tener in mano il corso degli eventi. Ed è stata un'assoluta scoperta: sarà per l’architettura a pianta circolare, le travi di legno a vista, il pavimento in tufo che sembra di terra battuta, sulla testa niente tetto ma la dolce serata romana, ma questa roba mi ha proprio coinvolto. Stavolta ho capito! ho percepito! ho visto! L'ambiente occupato da ogni attore, il perimetro non solo spaziale ma anche temporale e sonoro che gli è stato affidato, il particolare e personale modo in cui calca il palco, in cui gesticola, in cui imposta la voce. Certo La Tempesta si presta più di altre a questa rivalutazione, non ci sono giochi basati su equivoci che tanto mi stanno sulle palle, l’impianto narrativo è di prim’ordine, i personaggi non sono moltissimi e i principali sono immediatamente distinguibili. Per cercare di capire anche il lavoro di adattamento operato dal regista ho recuperato dallo scaffalone nel corridoio che con malcelata megalomania chiamo biblioteca il volume struzzi Einaudi che giaceva da tempo intonso.
Aperta parentesi, qualche giorno fa mi ero ripromesso di parlare dell’importanza della veste tipografica dei libri, dell’influenza del tatto, del peso, della carta nella lettura di un'opera e dell’impatto che tutto ciò ha nel giudizio che ne dai. Avrei voluto accennare alla qualità della carta della Piccola Biblioteca Adelphi, alla veste sempre professionale della Universale Bollati Boringhieri, alla pochezza e povertà degli Oscar Mondadori fino alla sensazione non sempre spiacevole da hard discount della economica Newton Compton, ma alla fine non se ne è fatto più nulla. Chissà un giorno. Giusto per tenervi informati. Chiusa parentesi.
Dicevo, ho riletto il testo e quella che mi pareva ascoltandola una rivisitazione in chiave moderna si è invece rivelata una versione quanto mai aderente all'originale. Cioè: lì sul palco del Globe parlavano una lingua del seicento, o quello che secondo il traduttore era una buona approssimazione italiana dell'inglese del seicento, ed io sono riuscito a seguire più o meno tutto senza crollare in preda ai conati dopo venti minuti... Conclusione: non è vero che La Tempesta è un'opera datata e non più attuale come il mio pregiudizio mi suggeriva, se sono riuscito a goderne persino io, ignorante materialista adoratore del dio apple. Seconda conclusione: non vi fate sfuggire il Globe Theatre e inseritelo nella programmazione della vostra estate romana, tra una caratteristica sciacquata di piedi nel fontanone ed un sempre in voga ruttone nella galleria Alberto Sordi (c'è l'eco...).
Mi concentro sui miei spinaci lessi. Dopo aver scacciato l'idea che potrebbe aver ragione il tipo di fronte, torno a pensare alla serata passata il giorno prima al Globe Theatre a Villa Borghese, una ricostruzione del teatro dove Shakespeare allestiva le sue opere a Londra.
L’ambientazione è sicuramente d’effetto, e per dieci miserrimi sbiuri puoi acquistare un biglietto per la platea, ti siedi per terra, se lo sai in anticipo ti porti un cuscino da casa per rispetto alle tue terga, altrimenti cazzi tuoi, e ti senti subito proiettato ai tempi d’oro del teatro elisabettiano. Devo dire che non l’ho mai amato il teatro, men che quello shakespeariano. Tutte le rappresentazioni che ho visto finora (ma si contano sulle dita di due mani) le ho trovate forzate, non più attuali, con testi a volte difficili da seguire, personaggi che mi ci perdo, movenze pompose, dizioni troppo caricate, trame basate su equivoci scontati e non realistici. Non riuscivo proprio ad entrarci dentro.
Questa volta era in scena La Tempesta, protagonista assoluto Giorgio Albertazzi, vegliardo che riesce seppur da immobile a tener in mano il corso degli eventi. Ed è stata un'assoluta scoperta: sarà per l’architettura a pianta circolare, le travi di legno a vista, il pavimento in tufo che sembra di terra battuta, sulla testa niente tetto ma la dolce serata romana, ma questa roba mi ha proprio coinvolto. Stavolta ho capito! ho percepito! ho visto! L'ambiente occupato da ogni attore, il perimetro non solo spaziale ma anche temporale e sonoro che gli è stato affidato, il particolare e personale modo in cui calca il palco, in cui gesticola, in cui imposta la voce. Certo La Tempesta si presta più di altre a questa rivalutazione, non ci sono giochi basati su equivoci che tanto mi stanno sulle palle, l’impianto narrativo è di prim’ordine, i personaggi non sono moltissimi e i principali sono immediatamente distinguibili. Per cercare di capire anche il lavoro di adattamento operato dal regista ho recuperato dallo scaffalone nel corridoio che con malcelata megalomania chiamo biblioteca il volume struzzi Einaudi che giaceva da tempo intonso.
Aperta parentesi, qualche giorno fa mi ero ripromesso di parlare dell’importanza della veste tipografica dei libri, dell’influenza del tatto, del peso, della carta nella lettura di un'opera e dell’impatto che tutto ciò ha nel giudizio che ne dai. Avrei voluto accennare alla qualità della carta della Piccola Biblioteca Adelphi, alla veste sempre professionale della Universale Bollati Boringhieri, alla pochezza e povertà degli Oscar Mondadori fino alla sensazione non sempre spiacevole da hard discount della economica Newton Compton, ma alla fine non se ne è fatto più nulla. Chissà un giorno. Giusto per tenervi informati. Chiusa parentesi.
Dicevo, ho riletto il testo e quella che mi pareva ascoltandola una rivisitazione in chiave moderna si è invece rivelata una versione quanto mai aderente all'originale. Cioè: lì sul palco del Globe parlavano una lingua del seicento, o quello che secondo il traduttore era una buona approssimazione italiana dell'inglese del seicento, ed io sono riuscito a seguire più o meno tutto senza crollare in preda ai conati dopo venti minuti... Conclusione: non è vero che La Tempesta è un'opera datata e non più attuale come il mio pregiudizio mi suggeriva, se sono riuscito a goderne persino io, ignorante materialista adoratore del dio apple. Seconda conclusione: non vi fate sfuggire il Globe Theatre e inseritelo nella programmazione della vostra estate romana, tra una caratteristica sciacquata di piedi nel fontanone ed un sempre in voga ruttone nella galleria Alberto Sordi (c'è l'eco...).