giovedì 23 aprile 2020

E tu durante il Grande Lockdown del 2020 che hai fatto?

Un giorno qualcuno mi chiederà come ho impiegato il tempo nei giorni del Grande Lockdown del 2020.
Tra venti o trent'anni un nipote mi guarderà al di sopra dell'ultrawatch e mi rivolgerà con noncuranza la domanda delle domande: e tu, nonno, cosa hai fatto in quel tempo? Come hai utilizzato la Grande Opportunità che ogni estimatore della vita casalinga desidera?
Sono sicuro che lo farà.
E io mi sono preparato la risposta: cosa ho fatto? Mi chiedi cosa ho fatto, moccioso? Ecco cosa ho fatto:
1- Ho panificato. Pane tre volte a settimana, pizza una volta. Mai fatti prima. Certo, gli esiti non sono sempre stellari, ma ho sperimentato, ho imparato, come il mio impasto sono cresciuto.
2- Ho praticato l'inglese. Ho letto resoconti sul Covid19, ascoltato webinar e podcast, visto serie e documentari, letto libri, tutto rigorosamente in inglese. Ora quando ascolto qualcuno che parla la lingua di Shakespeare ed è consapevole di essere ascoltato anche da stranieri, mi pare di capirlo molto meglio, di perderne al massimo il 10%. Credo di essere migliorato, sono cresciuto.
3- Ho fatto ginnastica. Regolarmente, tutti i giorni, almeno per 40 minuti. Ho allenato parti del corpo che erano dormienti da anni. Ho sperimentato nuovi esercizi e mi sono posto nuove sfide, coerenti col mio stato fisico e con i miei acciacchi da cinquantenne. Credo di aver ottenuto dei piccoli risultati, mi sono preso cura di me, sono cresciuto.
4- Ho studiato. Ho preso un testo universitario di fisica e mi sono messo a leggerlo: scalari e vettori, cinematica, gravitazione, termodinamica, elettrostatica, magnetismo. Non so fare gli esercizi, non ricordo a memoria le formule e non sarei in grado di sostenere nemmeno una interrogazione al liceo, ma ho capito delle cose, mi sono tolto dei dubbi, me ne sono venuti altri di livello diverso, ho intuito un mondo, sono cresciuto.
5- Ho disegnato. Ho comprato un blocco di carta spessa, un inchiostro waterproof per la mia stilo, una scatola di acquerelli e ho cominciato a buttare giù delle cose, a copiare in giro, a mischiare colori, a sperimentare senza timori o inibizioni. Mi è sempre piaciuto disegnare ma, inspiegabilmente, non l'ho mai fatto. Ho sempre ammirato chi lo sapeva fare, ogni tanto ho provato, ma abbandonavo sempre per la paura di essere giudicato. Ogni giorno ho disegnato qualcosa, e dopo poco mi è sembrato di riuscire a fare tratti più armonici, di sbagliare meno i colori, di azzeccare meglio le proporzioni. Pian piano sono migliorato, sono cresciuto.
Piazza con gente e bar aperti... sigh...

6- Ho fatto il rappresentante di classe. E non è stata proprio una passeggiata, nella fase embrionale della Didattica a Distanza. Da un lato docenti poco inclini a cambiare modalità di insegnamento, con poca dimestichezza con gli strumenti multimediali, attaccati a orari e ad abitudini che in emergenza perdono di senso; dall'altro genitori desiderosi di non cambiare nulla, di assicurare ai figli esattamente ciò che avevano in classe e di tenerli occupati il più possibile; e io nel mezzo a conciliare i due mondi, a mediare tenendo presenti i desideri di tutti ma senza offendere nessuno. Ho scritto, messaggiato, parlato, proposto. Ho imparato ad avere a che fare con varia umanità, sono cresciuto.
7- Ho giocato a tennis. Con mia figlia, due o tre volte a settimana, nello spiazzo di cemento antistante ai box condominiali. Ho lavorato sul servizio, sul dritto, sul rovescio, sempre imitando lei che è anni avanti. Ho migliorato qualche colpo, sono cresciuto.
8- Ho scritto. Poco, ma ho scritto. Non proprio un diario, ma appunti, schizzi. Tipo questa cosa che avete davanti agli occhi. E facendolo mi sono conosciuto un po' di più, sono cresciuto.

Nota per colleghi di lavoro: ovviamente il tutto nei tempi consentiti dal mio lavoro, che fortunatamente è proseguito in smart working: quindi la mattina presto, in pausa pranzo, la sera prima o dopo cena e nei week end. Sono cresciuto soprattutto in quei momenti lì, tranquilli.

mercoledì 1 aprile 2020

La mia vita ai tempi del Coronavirus

Roma, 14 marzo. Mercato Trionfale aperto: vende cibo, non si può fermare il costante e alacre lavoro umano contro l'entropia. Gente che mantiene le distanze, una buona maggioranza con qualcosa che copre il volto, spesso mascherine anti-polvere o chirurgiche, a volte sciarpe o vecchie bandane anni 80, qualcuno con fazzoletti umidificati tenuti con gli occhiali. Molti più banchi chiusi rispetto al normale, dopo un po' realizzi che sono quelli che erano gestiti da pakistani, bengalesi e orientali in genere. C'è stata una sorta di selezione implicita quanto difficilmente spiegabile, la stessa che ha portato alla chiusura in pochi giorni dei ristoranti e dei negozi di casalinghi cinesi ben prima del decreto del 9 marzo.
Arrivando qui da solo in macchina, con il lasciapassare firmato in una tasca e la lista della spesa in un'altra, avevo le lacrime che mi rigavano le guance. Saranno state le strade vuote, o forse le nuvole basse, o magari è perché il sabato mattina la spesa la faccio con mia figlia grande, e stavolta c'era un decreto del Presidente del Consiglio ad impedircelo.
Ho provato a dire in casa che la situazione somiglia a quella di una guerra mondiale. L'intento era quello di creare coesione e senso di avventura in famiglia, come dire: siamo eroi, vinceremo. E poi il bello è che stavolta i paesi del mondo sono tutti alleati contro un nemico non umano, in una sorta di federazione intergalattica contro gli alieni. Tutti insieme. E poi un'altra cosa bella è che non ci sono bombardamenti, distruzione e morti ammazzati. 
E in questi eserciti i plotoni sono composti da famiglie. Si vive tutti all'interno di una miriade di piccole comunità coese e promiscue al loro interno ma isolate l'una dall'altra, perché come in tutte le guerre bisogna stare al sicuro, e tutto quello che si fa, lo si fa in una casa trasformata per l'occasione in bar, scuola, ufficio, palestra, parco giochi, mensa, cinema, deposito di viveri, pasticceria. Soprattutto pasticceria.
Vabbè, quindi con la guerra non c'entra niente, ha detto mia figlia piccola. Beh, in effetti no, ho risposto io.