Eccoti
qui, sabato mattina, seduto in una panchina sugli spalti di questa umida
piscina di periferia, con la camicia impregnata di sudore misto a vapori di
cloro, che fremi d'emozione per un progresso del piccolo Armandino nella bracciata
a dorso che risulterebbe impercettibile ad occhi non paterni. Come hai fatto a
ridurti così? Tu che non eri certo il re della discoteca ma avevi comunque il
tuo giro, il tuo discreto successo, la tua platea femminile, le tue piccole vittorie. Tu che gestivi le tue giornate tra qualche
soddisfazione sul lavoro, molte serate col branco a fare il pieno di pistacchi
e Havana Club e di tanto in tanto una notte con chi ti portava la provvidenza. Adesso sei una larva bagnaticcia senza un minimo d'amor proprio e senza una
maniera migliore per trascorrere il fine settimana; e sai che c’è? a guardarti
da qui il tuo lato peggiore è proprio quel sorriso ebete stampato sul viso e
dedicato ad un marmocchio capriccioso.
Quando
è cominciato tutto questo? Come? Dove? Sei lì che provi a fare qualche riflessione,
ripercorri all'indietro la tua triste vita per capire qual è stato il bivio,
quale la scelta, quale circostanza che ti ha condotto fino a quella panchina
umidiccia quel sabato mattina.
Ci
pensi.
E
la prima cosa che ricordi è l’odore di disinfettante misto ad anestetico.
La
seconda è il colore sbiadito delle luci al neon riflesse su quelle pareti
verdine che portano dentro di sé l’essenza stessa dell’ospedale.
La
terza sono le grida di persone adulte e nel pieno delle forze e della salute,
ma che comunque gridano, miste ai vagiti di qualche nuovo nato.
La
quarta sei tu che all’improvviso realizzi che qualcosa è cambiato.
È
stato lì che lo hai conosciuto, prima di allora era solo una rotondità anomala
sul ventre della tua donna, anche con un non so che di sexy. (Poi sparito
subito, il non so che, non la rotondità).
Voglio
dire, per lei è stato facile, Armandino ha vissuto nove mesi all’interno del
suo corpo e lei ne ha approfittato per abituarsi all'idea della sua esistenza,
per creare quella che ingenuamente crede essere una complicità, una simbiosi,
una dipendenza reciproca, ma che a guardarla con oggettività è un lurido
rapporto tra parassita e organismo ospitante, che non termina mica dopo la
nascita, ma continua con l’allattamento e con qualche altra decade di
convivenza e mantenimento forzato.
Ma
per te, il papà.
Per
il papà non è stato semplice.
Il
papà ci cade dentro all’improvviso, come in una fottuta trappola.
Qualcuno
di voi pensa sia semplicemente arrivato il momento di trovarsi un nuovo ruolo,
a volte arriva a ritagliarselo su misura, e prova a risolvere l’impasse
rifugiandosi nei tecnicismi tipici di alcuni gruppi con cromosomi Y; allora li
vedi cambiare la macchina, comprare la Station Wagon, meglio se usata, così
stiamo comodi e risparmiamo, o cercare il passeggino con il miglior rapporto
peso/tenuta-di-strada. Altri si lanciano nell’organizzazione, stabiliscono
nuovi orari e nuovi riti di spostamento di massa verso nonni o amici con prole,
si occupano di tessere una nuova rete di relazioni che un giorno potrebbe
rivelarsi preziosa, non si sa mai. I più fortunati di voi alla fine si
convincono di averlo davvero, quel ruolo.
Ma
tu ti stai rendendo conto che il ruolo del padre è un’illusione, una
convenzione creata per non avere l’inconveniente demografico di milioni di
maschi che vanno in giro a spargere il seme, e per cercare di tenere attaccata
una società sul troppo astratto concetto di famiglia. La verità è che il tuo
vero ruolo, quello genetico, quello evolutivo, non esiste. Rimarrai a vita un
incidente di percorso nel rapporto madre-figlio, un intruso, un disadattato, un
senza terra, un clandestino, un barbone all’interno di quello che credi sia il
tuo nucleo sociale di base. L’unica cosa che ti si richiede è portare a casa un
flusso finanziario stabile e sicuro, sporcare il meno possibile e cercare di
non far rumore, che il bimbo dorme.
Sei
sempre lì sulla panchina, la puzza di cloro ti attanaglia l’ipofisi, quando
all’improvviso hai un lampo di genio, una di quelle rare illuminazioni sulle
quali si sono costruite intere saghe filosofiche orientali, e diventi
perfettamente consapevole dell’estrema verità di uno di quei principi
evoluzionistici che avevi appreso solo in maniera rudimentale sui banchi di
scuola: la nuova vita per svilupparsi deve assorbire qualcosa di energetico, e
una vecchia vita è quello che fa al caso suo; l’evoluzione funziona proprio
così: il nuovo sostituisce il vecchio, ma non solo da un punto di vista
cronologico: lo fagocita, se ne nutre, cresce sulle sue ceneri, ha bisogno
della sua morte. E capisci che alla fine il tuo ruolo è quello: morire perché
il nuovo viva, in una sorte di rottamazione ciclica e predestinata. Solo così
si spiega tutto: questa malinconia da stagione finita, questa tristezza da compleanno
degli anta, lo squallore di questa piscina, e fuori sta cominciando anche a
piovere.
Stai
per andare al bagno a vomitare, poi lo sguardo incrocia per caso la corsia dove
tuo figlio sta imparando a nuotare. Gli occhi ti si colmano di orgoglio,
vecchio coglione. Tranquillo. E’ solo la trappola che scatta. Ora neanche tu
potresti fare a meno.