I sensi si allenano, e ognuno di essi ha la sua palestra. Viaggiare in metropolitana ha acuito la mia percezione visiva dei volti e delle fisionomie. Una volta arrivato in banchina riesco con una sola occhiata panoramica a scandagliare tutti i visi che sono ad una ragionevole distanza e che non sono coperti da ostacoli e a captarne il grado di pericolosità. Intendo come pericolosità non il rischio che possano rivelarsi borseggiatori, stupratori o terroristi internazionali, ma che possano essere dei rompicoglioni. E' questo il genere di persone da evitare come la peste se, come il sottoscritto, hai intenzione di sfruttare al massimo il tempo di viaggio casa-ufficio ufficio-casa, un’ora netta in totale, per leggere il tuo libro. E se il libro in questione è Infinite Jest, di David Foster Wallace, il lavoro preparatorio deve essere svolto alla perfezione. In banchina sono come una specie di Terminator con la visione monocromatica rossa su sfondo nero, di ogni volto passo in esame i valori cefalometrici, li confronto con il database dei miei ricordi e sintetizzo il tutto in un fattore di rischio, dieci per il massimo, in caso di collega con il quale proprio in quella settimana sto intrattenendo intensi rapporti lavorativi (per cui sarebbe difficile non sprecare tutto il viaggio in vuote considerazioni di circostanza), zero per il minimo, in caso perfetti sconosciuti, passando per i vari gradi medi dei conoscenti da salutare con un cenno, del colleghi di qualche anno addietro da liquidare con brevi convenevoli, o dei suonatori underground, rischiosi solo in quanto rompitimpani.
Una volta che la scansione è terminata, se il risultato è a basso rischio, è possibile posizionarsi in uno degli estremi della banchina, quelli che di solito sono spopolati a causa del diffuso timore che i vagoni o non arrivino fin lì (estremo di prua) o che oltrepassino quel punto (estremo di poppa), tirar fuori il quasi chilo di carta rilegata con copertina violacea, bilanciare i pesi e attaccare.
La mia scelta di scrivere di IJ mentre lo leggo è dovuto ad alcuni innegabili vantaggi. Posso commentare a caldo le sensazioni, le difficoltà, i punti salienti, le idee che vengono dalla lettura, senza posticiparle a quando poi non avrebbero più senso, almeno per me. E posso utilizzare il blog come blocco degli appunti. Lo svantaggio, di contro, è che si rischia di dire parecchie cazzate. Ma di questo non ci siamo mai preoccupati troppo, in queste pagine.
Andando avanti con la lettura mi accorgo che la gara di velocità a chi finisce per primo IJ ipotizzata qualche giorno fa con alcuni lettori di questo blog nei commenti al post precedente, è per me improponibile. E non perché siano sopraggiunti momenti di crisi dovuti alla difficoltà dei periodi, al poco interesse dei personaggi o alle mille distrazioni esterne. Tutt'altro. E' che il librone oltre ad essere bello grosso è talmente denso da richiedere ampi momenti dedicati a rilettura e riflessione, e un’ansia da competizione non sarebbe d’aiuto.
Mi è ad esempio capitato di soffermarmi un'intera giornata leggifera tra pagina novantaquattro e pagina cento, nel bel mezzo di un capitolo APAD. In questo paragrafone di sette pagine, che a sua volta costituisce la seconda parte di un capitolo la cui prima è il meraviglioso racconto delle crisi di astinenza da Bob Hope di Kate Gompert, compare per la prima volta Gerhard Schitt, una sorta di Grunf del gruppo TNT, non so se avete presente, con occhialoni, casco di cuoio e motocicletta BMW con il sidecar, che qui all'ETA fa l’Allenatore Capo e il Direttore Atletico. Le sue chiacchierate peripatetiche con Mario Incandenza, che a malapena riesce a capirne le parole, figuriamoci i concetti, ma chissà come riesce a rispondere sempre a tono e a porre domande pertinenti, è fenomenale. Basterebbero questi scambi a rendere le pagine degne di essere trasportate, insieme al resto dei nove etti, in giro per Roma. Ma c'è pure il contenuto, la storia della Dinamica Extra-Lineare accennata dalla nota trentaquattro e il superamento della matematica del Caos con dimostrazioni di inesistenza post Godeliane, l’assonanza tra Kant e Cantor, e poi lo Zen e gli scacchi, e il tennis come gioco infinitamente denso. E alla fine, su tutto, c'è questa domandona formulata da Mario che non si capisce come sia venuta fuori, come sia riuscito lui a condensare l’intero capitolo in una semplice ma azzeccata questione, e più o meno chiede, Ma allora il fine della vita è la morte? E che differenza ci sarebbe tra l'una e l'altra? e la risposta del crucco: Nessuna. Tranne che hai l'opportunità di giocare.
C’è poco da correre, sono pagine dense. Come il tennis. Come le ragnatele di Vedova Nera Usa.
Una nota, forse banale, sullo stile: gli eterogenei capitoli di IJ hanno una caratteristica in comune: all’inizio sono poco ospitali, è ostico cominciarli, e poi, quando stai cominciando a entrarci dentro, a comprenderli, finiscono. La festa finisce quando cominci a divertirti. Come a dire: avete capito i meccanismi? Vi piace? Beh, arrivederci. Immagino sia l’unico modo che DFW ha scovato per parlare di così tante cose per così tante pagine senza rischiare l’abbandono.
Come commiato vi lascio due chicche:
La ricostruzione dell’Enfield Tennis Academy nel disegno qui in basso, e questa succosissima e dettagliata visione panoramica (è anche possibile scaricare il lenzuolone in pdf) delle interrelazioni tra i personaggi di IJ, con alcune mappe e la struttura degli anni di cui abbiamo già accennato nel post precedente. Devo dire che ad oggi non sento ancora il bisogno impellente di consultarla come riferimento, ma probabilmente sono troppo indietro per apprezzarla appieno. Ieri ci ho navigato un po’, mi pare ben fatta. Immagino comunque che per capire a fondo tutte le implicazioni a cui queste interrelazioni accennano non basta uno schema, per quanto dettagliato sia. Ho come il sospetto che per dire tutto servirebbero milleduecentottantuno pagine fitte fitte, né una in più, né una in meno.