mercoledì 27 giugno 2012

IJ contro corrente

Barca n. 463 con andatura al lasco, non propriamente
"contro corrente" nè "contro vento" ma questo ho trovato
Per chi fosse interessato all'argomento Infinite Jest e alle diverse opinioni che un libro del genere può suscitare, raccomando la lettura di questo interessante post del Disagiato (che, almeno come nickname, con IJ c'entra parecchio, eccome) e dei commenti che ad esso seguono.
Ora vado, devo riprendere quanto interrotto a pagina quattrocentosessantatre.

martedì 19 giugno 2012

Il segreto delle tabelline


Questo post nelle mie iniziali intenzioni doveva essere una recensione a quattro mani o, in subordine, un’intervista nella quale il tacchino avrebbe posto alla piccola V. domande sull’ultimo libro che ha letto, “Il segreto delle tabelline e la Banda delle 3 emme” di Mario Sala Gallini, disegni di R. Van Wyk, edizioni Mondadori, collana “I Sassolini a colori. Rosso”, 69 pagine. Ma ci avete mai provato a pianificare un’attività del genere con una settenne proprio all’inizio delle vacanze estive? Basta un nonnulla per capovolgere i programmi, e il nonnulla si è presentato domenica pomeriggio nelle vesti di una frase smozzicata, che suonava più o meno “pa’, fai tu, io non ne ho voglia”. Ed eccomi qui a ritagliare il tempo necessario per buttare giù due righe su quello che ritengo un capolavoro della letteratura per bambini.
Direte voi: see, in sessantanove pagine compresi i disegni che capolavoro vuoi fare, ce ne vogliono più di mille di pagine per una definizione del genere, settanta in più se prendiamo l'edizione Garzanti de I Fratelli Karamazov, o duecentottantuno in più per quell'altro affare di cui adesso non mi sovviene il nome.
Dico io: noo, in quelle poche pagine compresi i disegni (peraltro utilissimi nelle spiegazioni delle tecniche manuali che nel libro vengono illustrate) trovano sufficiente spazio:
·  La spiegazione di una tecnica semplicissima quanto mirabile per conoscere la tabellina del nove (che ha lasciato tacchino e figlia per 5 minuti a bocca aperta) (sono disposto a rivelarvela dietro esplicita richiesta)
·  La spiegazione di un’altra tecnica (leggermente più complicata della prima ma ugualmente mirabile) per conoscere tutti i risultati delle moltiplicazioni a due fattori tra i numeri sei, sette, otto e nove (es: 8x9, 7x6, 7x7 ecc.) (che ha lasciato tacchino e figlia per 8 minuti a bocca aperta)
·  La spiegazione di una tecnica per trasformare numeri in lettere e viceversa, utile per ricordare numeri complicati a più cifre, tipo la combinazione del lucchetto della bici
·  Uno spaccato di costumi ed usanze del popolo Rom
·  Una storia d’amore (non ancora consumata)
·  Una storia d’amicizia
·  Alcuni passaggi esilaranti
Il tutto scritto in un linguaggio brillante e adatto alla fascia d’età alla quale si rivolge (dai sette anni in poi), con il giusto mix di parole nuove, stimoli sintattici, tematiche attraenti, soprannomi divertenti, situazioni comiche e alla modica cifra di 5,25 euro (in edizione cartacea e su una qualsiasi libreria on-line).
Che volete di più? Che ve lo porti a casa e ve lo legga personalmente prima della nanna?

sabato 16 giugno 2012

Gottinga e l'infinito

L'Università di Göttingen, in Germania
Mettetevi comodi e leggete questo fumetto di Davide Osenda. Si parla di Cantor e degli infiniti, del vecchio Kurt Gödel e del nazismo, e c'è persino l'esempio del grammofono tratto dal capolavoro di Douglas Hofstadter, Gödel Escher e Bach.
L'ho scovato grazie all'Archivio David Foster Wallace Italia (trovate il link qui a lato): pare che il nostro nuovo amico DFW fosse particolarmente sensibile a questi argomenti, visto che ci ha pubblicato anche un saggio.
Ora mi torna tutto.

giovedì 14 giugno 2012

Oihgnir

Mi pareva di aver capito che nei i sogni le attività cerebrali di tipo analitico sono ottenebrate, e che i canoni logici del funzionamento del mondo vengono sovvertiti. Non è stato così nell’ultimo sogno che ho fatto di cui conservi un minimo ricordo: qualcuno continuava con insistenza a chiedermi come si legge ringhio (sempre tematiche violente in questo periodo) al contrario e io, dopo qualche attimo di riflessione, ho risposto sicuro: oihgnir!
Ora, delle due l’una: o avevo capito male, e la logica durante i sogni continua a funzionare, o le capacità intellettive necessarie a capovolgere una parola non sono logiche ma di altro tipo.
Uno scorcio suggestivo di
Decimomannu (CA).
Suggestionati a sufficienza?
Comunque, poco male. Fatto sta che i giochini con le lettere mi hanno sempre affascinato, e non credo di essere un caso isolato. Chi di voi da piccolo non è rimasto a bocca aperta quando gli è stato svelato il segreto di parole come aiuole o sequoia, batta un commento. Si tratta di parole panvocaliche, che contengono tutte le vocali una e una sola volta (a me piace molto squinternato, ma qui trovate altri esempi). In italiano non esistono parole panvocaliche che conservino l’ordine alfabetico delle vocali (in inglese sì, ad esempio astemious) e sono anche rarissime quelle che finiscono in u. La prima parola italiana con questa caratteristica che è stata “scoperta” è Decimomannu, e quando è stata annunciata un boato si è levato tra i ludolinguisti assiepati allo stadio di Cagliari.
Con le vocali i giochini da fare sono parecchi. Ad esempio in Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg c’è quello famoso che consiste nel ripetere una frase-tipo utilizzando le vocali una alla volta in alcune parole: il baco del calo del malo, il beco del chelo del melo, fino ad arrivare all’esilarante (perlomeno alle orecchie di un bimbo della prima metà del secolo scorso) il buco del culo del mulo. Di questo trucchetto c’è anche una versione in siciliano molto meglio riuscita: l’alchimia riesce sostituendo tutte le vocali della frase in un efficace u purtusu du culu du mulu.
C’è anche chi, all’interno dei rigidi canoni dell’OuLiPo (o OpLePo che dir si voglia), si è cimentato in componimenti poetici monovocalici. Avete capito bene: oltre ai vincoli tipici dei componimenti in versi, come la metrica e la rima, e oltre alla non sempre ovvia necessità che lo scritto abbia un senso, questi buontemponi amanti di catene, lacci e lacciuoli si sono detti: sai che c’è, ‘sto sonetto è troppo libero, e che adesso uno può scrivere quello che gli pare? mettiamo un’altra regola: si può usare solo la vocale a, e non vale inventare parole. Vi pare ancora poco? Ok, sappiate allora che Giuseppe Varaldo di vincolo se ne è dato pure un altro: ogni sonetto sarebbe dovuto essere il riassunto di un’opera della letteratura universale.

Questa è la sua versione di La Metamorfosi di Kafka, un fantastico sonetto in a:

D’amalgama fatal la trama tratta
(la narra Kafka, par ch’accada a Praga):
abracadabra, cabala da maga
all’alba fa passar da Samsa a blatta!

Alata l’alma, ma la zampa gratta;
la panza ha larga, la parlata vaga,
ma la magagna smacca, smagra, smaga…
A far da tana sta la branda sfatta.

Malnata, maltrattata, mal amata,
la strana larva dal tran tran stramazza;
ma dall’ava sarà da là spazzata.

Spalancata la stanza alla ramazza,
la gran carcassa-salma raccattata,
ad accasar s’abbada la ragazza

Se avete voglia di fare un tentativo, a voi la parola… (ok, sono pronto: or lo provo).


(parzialmente tratto da un intervento di Stefano Bartezzaghi, scarica qui il podcast)

martedì 12 giugno 2012

Fight Club

Il parcheggio dedicato ai motorini in prossimità della stazione della metro Cipro, con le strisce bianche ben evidenti ad indicare la gratuità dei posti assegnati alle due ruote in contrapposizione con quelle blu per i posti a pagamento, riservati agli autoveicoli, sta ad indicare una sorta di incentivo economico destinato a chi ha un minor impatto sul traffico urbano e sull’occupazione del suolo pubblico; spesso quel parcheggio gratuito è preda di incivili che, per evitare la zona a pagamento, piazzano la propria auto di traverso occupando in un sol colpo sei o sette posti moto.
E’ a mio parere doveroso che il cittadino dia un segnale a chi non rispetta le regole, e in questi casi il vostro tacchino adotta un comportamento che ha già avuto modo di spiegare qui, un innocuo atto di protesta: alza i tergicristalli della vettura mal parcheggiata, come a dire: “caro signore, disapprovo la sua arroganza e il suo menefreghismo nei confronti delle regole del vivere comune”.
Stamattina il Land Cruiser extra-large modello protezione civile non solo ne occupava otto di posti moto (giuro, li ho contati) ma faceva debordare il suo enorme muso sul marciapiede, occupandolo con entrambe le ruote anteriori. Dopo aver parcheggiato il mio scooter nel poco spazio rimasto, ho fatto quello che faccio sempre: ho alzato con calma i tergicristalli anteriori dell’astronave, come discreto segnale indirizzato al suo conducente.
Un tipo aggressivo è spuntato fuori dal nulla sbraitando.
-Che cazzo fai, lascia la mia macchina, io a te non ti ho toccato, tu non devi toccare me.
-Ma io ho parcheggiato bene mi pare, sei tu che hai invaso otto posti riservati e pure il marciapiedi; e poi non ho danneggiato l’auto, ho solo lasciato un segnale che voleva dire che hai parcheggiato di schifo. Visto che sei qui ti chiedo anche di spostare la macchina, grazie.
-La mia macchina non la devi toccare.
L’atteggiamento era dei più disgustosi, voler ribaltare la situazione con l’aggravante della più becera arroganza, quella legata al possesso dell'auto, assurta in quel momento a status symbol del faccio come cazzo mi pare: sentivo le ghiandole surrenali che secernevano adrenalina a fiotti. Mettiamola così: ha alzato la voce e ho alzato la voce. E forse le cose non sono nemmeno andate in questo preciso ordine. Tralascio i particolari (anche perché non li ricordo), basti sapere che ho concluso la mia invettiva con un “sposta questa cazzo di macchina” gridato a brutto muso. Ho fatto anche un’altra cosa: mentre la dicevo, questa frase, come un molossoide in un ring per combattimenti clandestini, ho fatto un passo avanti verso il mio avversario per saggiarne le volontà combattive.
Se ci ripenso ora mi viene quasi da ridere, ma ero una belva pronta a saltare alla gola (e nemmeno troppo metaforicamente). Lui all’istante ha fatto un passo indietro, in una sorta di remissione. Come se avesse accennato a mettere la coda tra le gambe. Per me è stato più che sufficiente, mi ritenevo completamente soddisfatto, ero pronto a finirla lì, ad accettare la giustizia ristabilita che era implicita in quel passo indietro, in quel piccolo cedimento. Come ogni buon molosso dominante, ero pronto a farmi annusare i genitali (questa volta metaforicamente).
Le cose parevano davvero sistemate, lui che sale sull’auto e mette in moto, io che sono ancora davanti al muso del Toyotone (il genere maschile è ammesso per quella stazza di auto). Poi il tipo mi guarda negli occhi attraverso il parabrezza, fa una brusca accellerata e lascia la frizione ripremendola subito dopo, facendo così fare uno scatto in avanti all’auto che in una sorta di abbaiata si avvicina pericolosamente al mio bacino. Come a dire: ora sono sul mio potentissimo mezzo, ti schiaccio quando voglio, la tua vita è nelle mie mani.
É qui che avviene una cosa stranissima, a mio parere inspiegabile: in questi casi l’Homo Sapiens dovrebbe farsi un rapido calcolo e dire: sai che c'è, ho davanti un coglione, e io non rischio la vita per un coglione, ho una moglie e due figlie, quindi giro le spalle e me ne vado. Questa è la cosa logica da fare, dice l’Homo. E invece il vostro tacchino, che Homo non è, sfoggia uno dei suoi numeri da adolescente in calore: tira un cazzottone sul cofano nero di quella macchina che, con il motore acceso e la marcia innestata, è a soli venti centimetri dalle sue gambe. Esattamente come avrebbe fatto l’Homo Neanderthalensis, o forse nemmeno, che anche lui era più furbo di un tacchino. A quel punto mi aspettavo di tutto. Il tipo per fortuna non va oltre, fa manovra e se ne va, e la cosa finisce senza danni. E mentre fa marcia indietro io sono ancora lì, pronto a guardarlo mentre romba via, come ero stato pronto pochi secondi prima ad affrontare parecchi quintali di SUV con la sola opposizione dei miei sessantasei chili di ossa e occhiali da miope. Come un vero coglione.
E ora mi rimetto completamente alla mercè di ciò che vorrete dirmi: sbeffeggiatemi, chiamatemi animale, fatemi notare che chi scende a quel livello è sempre in torto, fatemi capire che il perdente sono io, che poteva finire male per una cazzata, che non ne valeva la pena, che la calma è la virtù dei forti, che devo crescere, che una persona matura e con famiglia non si comporta così, che è da incoscienti, e ricordatemi pure che non è la prima volta che faccio cose del genere (ed eccone le prove), che prima o poi finirà male, che sono un povero idiota. Forse me lo merito.
Ma mi dovete convincere.

sabato 9 giugno 2012

Metamorfosi


La lenta evoluzione tra le forme agli occhi di una quattrenne: come passare da "P" a "4" senza soluzione di continuità.

venerdì 8 giugno 2012

Incontro a sorpresa


Un giunto cardanico, per chi avesse dubbi

L'appuntamento mattutino col meccanico diventa gioco forza periodico quando possiedi un auto di 13 anni e quasi altrettante decine di migliaia di km sui giunti cardanici; una volta tocca alla distribuzione, quella dopo al gruppo bobine, poi al filtro della benzina. Stamattina, di ritorno dall'officina, la deviazione dal solito percorso casa ufficio mi costringe a passare in zona scuola della settenne in un orario inconsueto, proprio mentre l'intera classe in ordinata fila per due transuma dall'edificio scolastico alla vicina palestra convenzionata per l'ora di ginnastica.
Affianco la colonna bimbesca alla guida del mio scooter e vengo subito riconosciuto da BS e da BM, prime della fila, che spesso stazionano a casa del tacchino indugiando in attività ludiche. "Guarda", dicono all'unisono, "è il papà di V", e accompagnano l'entusiasmo con un ampio saluto della mano. Io ricambio il saluto e cerco mia figlia con lo sguardo. V è tre file più indietro, forse distratta, forse nemmeno troppo, "Ehi V, c'è il tuo papà", fanno le compagne, e V allora, costretta all'attenzione, accenna un saluto incerto, con il gomito ben attaccato al fianco e chiudendo l'angolo dell'avambraccio in un ampiezza intorno ai 120°, insomma, poca roba, e qualche occhiata obliqua accompagnata da un non sorriso smozzicato.
L'insieme gestuale voleva chiaramente dire: "Ok, pa', ciao, ma ora vai al lavoro, ci vediamo stasera, questo e il mio mondo e non sono consentite invasioni".

lunedì 4 giugno 2012

Infinite content

immagine tratta da brainpickings.org
Questo libro mi dà il tormento. Mi intossica, mi causa dipendenza, si comporta nei miei confronti come una di quelle Sostanze (la maiuscola non è mia) di cui tratta in maniera tanto minuziosa. Anzi, a ben vedere questa sensazione di assuefazione è aumentata e portata all'estremo proprio dall'argomento che le pagine in cui sono immerso affrontano: guarda caso la dipendenza da Sostanze (l'autorefenzialità torna ad essere il minimo comun denominatore di parecchia di quella che considero la migliore roba che ho letto negli ultimi anni). Continuo a ripetermi che il poco tempo libero che riesco a racimolare deve essere esclusivamente dedicato alla lettura del chilo viola, e che non posso perdere tempo a fare altre cose, incluso parlare della mia ossessione. Qualche giorno fa mi era venuto persino lo schiribizzo di interrompere momentaneamente questo blog. Volevo appendere un cartello con su scritto “questo spazio è sospeso fino a data da destinarsi a causa di insormontabili problemi di connessione neuronica dovuti a sovraccarico da Infinite Jest”.
Ma poi mi sono convinto che una terapia sarebbe stata necessaria, sento il bisogno di spurgare le Sostanze assorbite nella lettura, come facevano le lumache che raccoglievo da ragazzetto d'estate dopo i temporali, e che mettevo in una rete appesa al muro del magazzino per aspettare che si svuotassero del contenuto dei propri intestini prima di passarle in padella (anche se poi non avevo il coraggio di farlo e le liberavo tutte). La terapia di spurgo migliore a mio parere è parlarne di quell'ossessione, sì, ma a piccole dosi; scrivere riguardo alle pagine che leggo, d’accordo, ma non troppo intensamente. In ogni processo di uscita dal tunnel, di affrancamento dalla dipendenza, le diluizioni sono importanti. Si può provare a disintossicarsi parlando con serenità e pacatezza del proprio problema, come nelle tecniche di condivisione e auto consapevolezza degli Alcolisti Anonimi tanto care a David Foster Wallace. Provare a raccontare ma in maniera diluita, un poco alla volta, ecco il segreto. Bisogna trovare il modo per annacquare il contenuto ossessivo con dosi di materiale inerte, con eccipienti neutri, con palline di polistirolo; ad esempio si può provare con cenni poco coinvolti su qualcosa di marginale, sul contenitore ad esempio, la forma del libro, il suo peso, il suo colore. Meglio ancora: con elementi sul contenitore di quel tutt’uno formato dall’insieme lettore/libro. Quindi la stanza da letto, o questo soggiorno o, più adatto nel mio caso, la Metropolitana di Roma, il vero contenitore delle mie letture.
Ecco la soluzione! E a ben vedere è quanto ho inconsapevolmente perseguito già nei due post precedenti: parlare del legame indissolubile tra contenitore e contenuto, tra strumento e fine, tra forma e sostanza, tra cornice e opera d'arte, tra ambiente e mente, insomma, tra la Metropolitana di Roma e la mia personale lettura di IJ, in modo da non rimanere eccessivamente intrappolato nelle pagine vere e proprie.
In rete i consigli sulla lettura del librone si sprecano, e spesso si schierano sullo stesso fronte: attenzione potenziali lettori, dicono questi stregoni, se volete andare avanti avete bisogno della massima concentrazione, quindi niente spiagge, niente mezzi pubblici, niente parchi, solo solitudine e isolamento completo. Non sono d’accordo. Non è importante il luogo in sé stesso, conta solo l’organizzazione. Contano le regole che ti dai.
Nello scorso post abbiamo analizzato la prima regola, la solitudine: se vuoi leggere IJ in metro, la prima cosa da fare è sbarazzarsi dei potenziali rompipalle che vogliono solo chiacchierare (puah). Oggi andiamo avanti col programma. La seconda regola è: non sedersi, mai.
Non è una questione di galateo metropolitano. E’ una semplice legge di sopravvivenza. Analizziamo i rischi che si corrono contravvenendo a questo principio cardine nella vita del lettore underground.
  1. In banchina, all’ora di punta, all’arrivo della metro, la tensione sale alle stelle. La lotta per posizionarsi sulla striscia gialla in modo da essere tra i primi a entrare, è senza quartiere. I più arditi si piantano proprio sul bordo dell’abisso rotabile, rischiando di trovarsi il naso tranciato dall’arrivo del locomotiva. Tutto è lecito pur di conquistare le prime file, spinte, strattoni, viscidi sguisciamenti, il premio è un ambíto posto a sedere. Qualche temerario non aspetta nemmeno l’uscita delle persone dal vagone e, contravvenendo ad una semplice regola del buon senso, prima si svuota una cosa, e solo poi si può riempire di nuovo, si butta dentro a capofitto appena le porte accennano ad aprirsi, bloccando l’intero processo di deflusso e richiamando su di sé maledizioni e anche qualche meritata spallata. Il pericolo in questo gioco è la perdita della dignità, oltre che farsi male.
  2. Ma il viaggiatore-libron-munito oculato non si siede nemmeno quando ci sono posti liberi. Neanche se la giornata è stata davvero pesante e ne sente la fatica nelle gambe. Neanche se ha per le mani un chilo viola da sorreggere e sfogliare. Innanzitutto se vi mettete comodi e siete sprovvisti di un sempre pratico cuore da merluzzo del nord atlantico, siate pronti a frequenti moti di compassione: c’è sempre qualcuno che più di voi meriterebbe di star seduto: un'ottantenne ingobbito dall’artrosi, una signora incinta, un ciccione dall’età indefinibile, un bimbo malfermo nelle gambe, una trentenne stragnocca. Vi guardano con quegli occhioni che implorano un atto di pietà (soprattutto la stragnocca) e l'unico risultato della vostra ostinazione a starvene seduti sarebbe quello di leggere poche pagine senza concentrazione, perché tutta l’attenzione sarebbe spostata su chi vi circonda e sulle cortesie che dovrebbe meritare. Un’ansia difficile da mettere a tacere.
  3. Inoltre sedersi spesso implica la necessità di disporre di uno stomaco di ferro. Stare seduti con le spalle compresse contro quelle del vicino significa sorbirne gli odori, percepirne i sudori, ascoltarne il respiro affannoso, assere esposti agli schizzi dei suoi starnuti, all’acredine del suo alito, al calore del suo corpo. No, grazie.
Fidatevi di me gente, la soluzione migliore è rimanere in equilibrio sulle proprie scarpe, a qualunque costo, con qualsiasi situazione di affollamento. In piedi si trova sempre un modo per rivolgere il viso verso un microspazio personale di almeno una trentina di centimetri di diametro, chessò, l'area di vuoto sopra una valigia, o lo spazio verso una porta o una parete. Io di solito mi piazzo di fronte ai sedili che corrono parallelamente al verso di marcia del treno, con lo sguardo verso chi é seduto, con la pancia all'altezza delle loro teste e con il viso che può godere del notevole vuoto che rimane sopra di loro, e il finestrino di fronte che aumenta la sensazione di spazio. Un ulteriore pregio di questa posizione è che non si è coinvolti nella serie di "scende?" ad ogni approssimarsi di stazione, visto che si è sufficientemente distanti dalle uscite. Lo considero un notevole vantaggio, quasi irrinunciabile se avete intenzione di continuare a leggere quell'enorme agglomerato di contenuto. Anche se poi in alcuni casi non è sufficiente aver conquistato una posizione decente, e potrebbe essere necessario ricorrere ad un buon paio di tappi per orecchie in polistirolo espanso Flents modello industriale.
È proprio in questo contesto, con questo contorno, con questi rumori di fondo, che ho affrontato la settimana di lettura di IJ.

Ed eccomi qui che, dopo una buona dose di palline di polistirolo riempitive riguardanti il contenitore, provo a spurgare la dipendenza dal contenuto sorvolando con leggerezza sulle pagine che mi hanno coinvolto e cercando di non rimanerne di nuovo irretito. E allora accenno quasi di sfuggita alla profetica descrizione del crollo della videofonia raccontata e supportata da un'approfondita analisi delle cause tra le pagine centosettantadue e centosettantotto, più o meno proprio quello che si è verificato nella realtà in anni ben successivi alla pubblicazione del libercolo.
Poi sfioro appena il discorso del padre di J. O. Incandenza al figlio, un monologo sul talento, sulle occasioni perdute della vita, sulle aspettative dei genitori.
Arrivo planando sulla serie di elenchi (e se avete letto il post sugli elenchi di Perec sapete quale effetto trascinante abbia questo tipo di lettura sui miei bulbi oculari) e atterro con un tonfo sui consigli "ecco come fare" dati nella cartuccia di intrattenimento da Hal Incandenza ai giovani tennisti dell'ETA, poi sui messaggi esilaranti scritti alla casella di posta della sig. na Patricia Montesian del CAAS, poi ancora sulla lista delle fughe abusabili ben ampliato nella nota numero settanta, e ancora sulle cose che si imparano se hai l’opportunità di passare del tempo in una struttura statale di recupero da sostanze come la Ennet House di Enfield Ma, fino a sbattere occhi, muso e stomaco sulla lunga, ipnotica e geniale evocazione delle menomazioni e imperfezioni fisiche snocciolata da Madame Psychosis nel suo + o -  Sessanta Minuti. Verrebbe la voglia di cercare su Wikipedia ognuno di questi astrusi termini medici, ma è preferibile non fermarsi alla mera comprensione dei termini e provare a leggerli ad alta voce (forse meglio se non si è in metro, stavolta) assaporandone i suoni con le viscere più che con le orecchie e con il cervello. Il bisogno di apprenderne il significato passa in secondo piano, d'altra parte se DFW avesse ritenuto indispensabile far conoscere il senso letterale dei termini ai propri lettori avrebbe inserito delle note, non mi pare si sia fatto troppi problemi in altre occasioni.

L'edificio dell'Unione, Enfield, Ma
Poi mi areno, e sono ormai in piena scimmia, nelle tre doverose letture che ho dedicato alle pagine duecentoventidue e duecentoventitre, la descrizione dell’architettura dell’edificio dell’Unione, in tutto e per tutto simile ad un cervello umano. Pia madre, chiasmi ottici, area uditiva, mesencefalo, solco frontale inferiore, sutura parieto-occipitale, giro temporale superiore, Ponte di Varolio, abducente, midollo allungato, in queste pagine non si riferiscono a parti del cervello umano ma a elementi architettonici del sito da dove Madame Psychosis trasmette il suo programma radiofonico indirizzato al solito target di geek genialoidi e nerd del MIT, in una sorta di grande metonimia in cui si mette in relazione un contenitore (l’edificio) a un contenuto ad esso simile (i cervelloni degli studenti). Detto così pare la fiera del qualunque, ma si tratta di pagine memorabili. E ho trovato estremamente seducente l'intera descrizione del programma radiofonico di Madame Psychosis (a proposito, nella nota ventiquattro, quella sulla filmografia di J. O. Inc., Madame Psychosis compare spesso come attrice, non so se questo sia solo un piccolo indizio insignificante o se avrà un concreto seguito nella storia, ma in una recensione while reading come questa bisogna assumersi dei rischi, e io scommetto sulla seconda ipotesi).
Piano, vacci piano Tacchino, dovevi diluire, dovevi annacquare, e ti sei fatto coinvolgere di nuovo. Ok, solo un'ultima cosa prima di liberarvi dalle mie ossessioni: non so se avete notato la finezza: non ho numerato i post come ho fatto precedentemente con altri serial blogghistici, stavolta ognuno ha un nome, un po' come gli anni nell'era sponsorizzata per intenderci.
Fine.
Tante care cose a tutti.
(E ricordatevi che provare a ballare da sobri è tutto un altro paio di maniche.)

venerdì 1 giugno 2012

Io speriamo che me la cavo


Non sottovalutate il potere terapeutico della pioggia.
Si può restare in casa tutto il fine settimana senza eccessivi sensi di colpa.