venerdì 20 dicembre 2013

Informazione di servizio (con rilevante impatto tecnologico)

Una serie di circostanze lavorative, non scevre da una oggettiva convenienza economica, hanno fatto sì che nelle ultime settimane io mi sia dotato di uno di quei moderni strumenti di comunicazione che qualcuno ha ironicamente battezzato, traducendo in maniera letterale dall'inglese, furbofoni.
Inutile elencare qui i mille vantaggi che un attrezzo del genere dà all'utente, sicuramente non indispensabili alla sopravvivenza ma ai quali è sin troppo facile abituarsi.
Nonostante le mie resistenze iniziali (confermate dal fatto che sono passati più di 6 anni dalla commercializzazione dei primi Iphone) il tempo di assuefazione è stato brevissimo: dopo due giorni già non avrei più potuto fare a meno della versatilità dell'oggetto e soprattutto della sensazione "tutto in uno" che un minimalista inveterato come me apprezza enormemente.
Di seguito una breve lista delle principali applicazioni da cui ormai mi sento dipendente:

  • WhatsApp e Email, inutile approfondire,
  • RomaBus, ti consente di conoscere il tempo di attesa dei bus, indispensabile per un viaggiatore metropolitano che si rispetti, dà l'innegabile vantaggio di poter pianificare percorsi alternativi,
  • IlMeteo, più o meno come sopra, aiuta anche con l'abbigliamento (vedi apposito manuale di sopravvivenza), 
  • Kindle (App di lettura), consente di riempire gli spazi vuoti della vita (attesa all'ufficio postale o brevi tratti su mezzi pubblici in caso non abbiate il vostro fidato libro con voi) leggendo brani della vostra libreria personale. Ottimo anche per leggere in formato "libro" i testi provenienti da web (pdf o post da blog) inviati alla vostra libreria tramite applicazione Push To Kindle di Google Chrome (raccomandatissima). La funzionalità Ebook di un qualsiasi furbofono manda direttamente in pensione i vecchi lettori Kindle "fisici" (non avrei mai pensato di dover usare due aggettivi del genere -vecchio e fisico- per un aggeggio supertecnologico uscito da appena qualche anno e che per me costituiva fino a l'altro ieri il massimo della virtualità, vedi apposito panegirico). I vantaggi della versatilità e del "sempre con te" propri dello smartphone surclassano quello dello schermo non retroilluminato del Kindle,
  • Radio FM, ha completamente sostituito la mia fidata radiolina per l'ascolto del TG mattutino, ha una ricezione dieci volte migliore,
  • Twitter, sempre connessi al mondo che ti interessa,
  • Ruzzle e QuizCross, anche i tacchini giocano,
  • Fotocamera e Video, manco a parlarne.

Ci sentiamo tra qualche mese con un altro aggiornatissimo post sulle novità tecnologiche. (un'anteprima sul frullatore ad immersione potrebbe essere un'idea).

sabato 14 dicembre 2013

Carnevale della matematica #68


Questo mese il Carnevale è ospitato da Maddmaths!. Si parla di tempo. Al momento non mi vengono in mente argomenti più pressanti e attuali.
L'umile Tacchino partecipa con il post sullo spaziotempo e le sue unità di misura.
Buona lettura.

sabato 7 dicembre 2013

Una questione di unità di misura

Considero la platea del Taccuino (il solito paio di lettori al lordo di mia cugina) sufficientemente raffinata per avere quanto meno un'idea grossolana delle implicazioni della teoria einsteiniana della Relatività Ristretta sulla misura del tempo e dei "paradossi temporali" (1) ad essa connessi. Spargerò comunque dei link qua e là per chi volesse approfondire (2).
La teoria della RR ha introdotto, tra l'altro, il concetto di spaziotempo: l'universo avrebbe una struttura quadridimensionale, con tre dimensioni spaziali e una temporale. Si stabilisce un'equivalenza tra spazio e tempo a livello fondamentale (ognuna delle quattro dimensioni è una coordinata spaziotemporale di un evento), con alcune conseguenze dirette che paiono a prima vista quantomeno strambe.
Tutti prima o poi si imbattono in una qualche versione del paradosso dei gemelli: presi due gemelli, quello che viaggia nello spazio per lungo tempo a velocità sufficientemente elevate, al suo ritorno si ritroverebbe molto più giovane dell'altro, rimasto ad attenderlo sulla Terra; il tempo per il viaggiatore spaziale scorrerebbe quindi in maniera rallentata rispetto agli standard terrestri.

Piuttosto bizzarro, non trovate?
Durante una delle mie solite sgambate mattutine che spaccio per allenamenti, ascoltando un podcast (che trovate qui), mi sono imbattuto in quello che mi è parso un succoso esempio per capire le grandezze in gioco: qualche anno fa un giornalista chiese all'astrofisico Richard Gott: "mi scusi, signore con la giacca turchese, se è vero che il tempo è in qualche modo assimilabile allo spazio, e se è vero che viaggiamo così facilmente attraverso lo spazio, come mai non riusciamo a viaggiare allo stesso modo attraverso il tempo?". La risposta del bizzarro scienziato fu fulminante quanto sibillina: "il problema è che viaggiamo troppo poco anche attraverso lo spazio". 

Proviamo a capirci qualcosa, e diamo qualche dato su quelli che riteniamo i nostri mirabolanti viaggi spaziali: ad oggi la più lunga distanza che un uomo abbia mai coperto credo sia il viaggio verso la Luna. Circa 384.400 Km, se ci ostiniamo ad utilizzare questa unità di misura così strettamente legata al nostro limitato punto di vista terrestre. Se preferissimo invece un'unità di misura più "assoluta", indipendente dal sistema di riferimento utilizzato, le cose cambierebbero. In fisica si utilizza in questi casi una costante che fa al caso nostro: la velocità della luce nel vuoto, pari a circa 300.000 Km/sec. La distanza della Luna, misurata in questi termini, diventa di appena 1,3 secondi luce. Capirete, con tutta la nostra tecnologia (la Ferrari, il Concorde, il Freccia Rossa, lo Shuttle) al massimo siamo riusciti a portare in giro esseri umani per distanze nell'ordine del secondo luce. 

Passiamo ai nostri viaggi temporali: Sergei Krikalev è l'uomo che attualmente detiene il record di permanenza in orbita, con oltre 800 giorni. E' stato calcolato (anche dal sottoscritto, vedi successiva nota 3) che, cumulando le distanze percorse nelle sue missioni a velocità orbitali (la stazione spaziale sulla quale ha trascorso il suo tempo sfreccia a circa 7,7 Km al secondo, oppure 27.500 Km all'ora se preferite lo standard automobilistico), e considerata la storia dei gemelli e la teoria einsteiniana, abbia viaggiato nel futuro per circa 0,02 secondi totali (3).


Ricapitolando: 1,3 secondi del primo esempio e 0,02 secondi del secondo esempio. Si tratta di numeri del tutto comparabili, non trovate? Nemmeno due ordini di grandezza di differenza. Viaggiamo già attraverso il tempo in maniera più o meno coerente con quanto facciamo attraverso lo spazio. Il problema è che viaggiamo troppo poco attraverso lo spazio. Tutto qua.
La coerenza delle distanze nello spaziotempo diventa, se considerata da questa angolazione, una mera questione di unità di misura: basta adottare quella giusta, una unità assoluta, standardizzabile in maniera indipendente dalla nostra dimensione umana, che tutto diventa più coerente, più misurabile, e anche lo spaziotempo ai miei occhi sembra più comprensibile.
Sicuramente sto semplificando, forse mi sfugge qualcosa, ma questo livello di complessità è il massimo che un pennuto come il sottoscritto possa permettersi.

Note


(1) Le virgolette sono d'obbligo: non si tratta di veri e propri paradossi ma di esempi teorici con conseguenze lontane dal senso comune anche se del tutto coerenti con la teoria.
(2) Non si senta offeso nessun fisico relativistico che per malaugurato caso si imbattesse in queste umili pagine.

(3) (aggiunta in un momento successivo alla prima pubblicazione del post.) Su richiesta di un solerte lettore ho approfondito la questione del calcolo dello spostamento nel tempo di un sistema “viaggiante” (nel nostro esempio, l’astronauta) rispetto a un altro “fermo “ di riferimento (un uomo sulla Terra). Con mia meraviglia ho scoperto che il calcolo è piuttosto semplice, a conferma dell’estrema eleganza della teoria. Quindi è con grande piacere che vi propongo la RICETTA PER CALCOLARE QUANTO SI VIAGGIA NEL TEMPO: si prende il tempo trascorso sul sistema viaggiante e lo si divide per la radice quadrata di uno meno il rapporto tra la velocità del sistema viaggiante al quadrato diviso la velocità della luce al quadrato. Quello che ottenete è il tempo trascorso per il sistema “fermo”. A questo punto sottraete il tempo del sistema viaggiante e il gioco è fatto. Ho fatto la prova con l’esempio dell’astronauta e dei 0,02 secondi, mi torna alla perfezione. Ho pure urlato Eureka, spero mia moglie non abbia sentito. 

martedì 3 dicembre 2013

Manuale di sopravvivenza per viaggiatori metropolitani. Capitolo Uno: l'abbigliamento

Il vero Viaggiatore Metropolitano si riconosce da come si muove, da quello che dice o meglio non dice, dai tragitti che predilige. Ma anche da come si veste.
L'abbigliamento è la caratteristica più evidente tra quelle che denotano un pendolare metropolitano scafato e tosto distinguendolo dai semplici U.O.M.P. (Utilizzatori Occasionali di Mezzi Pubblici). In un torrido pomeriggio di luglio o in una gelida sera di gennaio, indossare il capo giusto fa la differenza tra una serena passeggiata nell'intestino tenue della città e una vera e propria discesa agli inferi.
E' per questo che voglio mettere la mia ultradecennale esperienza al vostro servizio e offrirvi alcuni riferimenti (più precisamente: tre regole, quattro premesse, cinque casi pratici e due postille) per diventare anche voi Viaggiatori Originali Metropolitani Indubbiamente Tosti e Inossidabili (V.O.M.I.T.I.).

Regola Uno: controllate sempre di persona la temperatura esterna. Io ho montato un termometro fuori alla finestra della cucina, lo consulto ogni mattina, subito dopo aver acceso sotto al caffè. Non fidatevi MAI di quello che leggete sui siti del meteo, che ascoltate al TG o che vi annuncia al telefono vostra suocera: esagerano sempre: aggiungere tre gradi d'estate e toglierne tre d'inverno fa notizia e desta interesse. Ma è da U.O.M.P.

Regola Due: in caso di pioggia evitate in ogni modo gli ombrelli pieghevoli. Se piove poco sono inutili e tranquillamente rimpiazzabili da un cappuccio o un cappello, se piove parecchio riparano a malapena il cranio e al minimo refolo di vento si accartocciano. Se si prevede pioggia (in questo caso, ma solo in questo, un'occhiata ai siti del meteo non fa male) meglio un ombrello classico: ci sarà un motivo se ha lo stesso design da svariati secoli senza soffrire di obsolescenza.

Regola Tre: vestitevi sempre come se ci fossero almeno 7° o 8° più di quanto indica il termometro della Regola Uno. Il perché è spiegato in dettaglio nei seguenti Casi Pratici.

Premesse alla trattazione dei casi pratici:
  1. Per la trattazione dei casi che seguono si considererà la temperatura t rilevata alle 7.30 di mattina, ora standard di preparazione caffè di un pendolare metropolitano medio.
  2. Nei casi si tratterà solo degli indumenti di copertura della parte alta del corpo (dalla cintola in su). Per la parte bassa fate come vi pare: a meno che non siate tipi da pantalone di velluto a coste e stivali Timberland da boscaiolo in pieno Agosto, non è facile commettere errori grossolani.
  3. Mi rendo conto che i casi sono un po' troppo incentrati su capi maschili. Perdonate l'apparente androcentrismo dovuto con tutta probabilità al fatto che sono uomo, e provate ad adattare le regole ai capi femminili. Non dovrebbe essere così difficile trovare le equivalenze adatte.
  4. Nell'analisi dei casi, si tenga sempre presente che il corpo umano produce all'incirca 100 Watt di calore in maniera continua, anche a riposo. Si consideri inoltre che il vagone della metro o il bus che vi accingete a prendere questa mattina (se avete controllato t alle 7,30 si presuppone che, come ogni pendolare medio, anche voi viaggerete all'ora di punta) conterrà almeno 100 corpi, che fanno un bel radiatore da 10 KW sempre acceso, d'estate e d'inverno.
Casi pratici

Caso t>20°: la T-shirt (o qualcosa che le si avvicini molto, tipo abitini leggerissimi svolazzanti per le pupe o canotte per i bulli) è l'unico capo di abbigliamento permesso per la zona dalla cintola in su.  In caso contrario preparatevi a sopportare le pene dell'inferno. Se ricordate la ancora premessa 4, vi renderete facilmente conto che qualsiasi cosa oltre la maglietta è di troppo. Non contate sul supporto di aria condizionata o finestrini, sarebbe come precipitare da sessanta metri d'altezza facendo affidamento sulla suola ammortizzante delle vostre Nike. Se avete, come me, problemi di etichetta (fate un lavoro in cui è necessario indossare una divisa, sia essa una tuta da operaio o un completo con giacca e cravatta) organizzatevi: lasciate tutto quello che potete in ufficio o in fabbrica, cambiatevi lì appena arrivate e spogliatevi prima di andare via. Ne va della vostra sopravvivenza.

Caso 12°<t<20°: T-shirt + camicia. Tranquilli. Ricordatevi del termosifone da 10 KW sempre acceso e aggiungeteci che appena t va sotto ai 20° ci sarà la gara a chiudere ermeticamente finestrini e oblò per paura degli spifferi e dei colpi di freddo sempre in agguato. Se vi state chiedendo se soffrirete il freddo durante i pochi minuti di attesa alle fermate esterne, sappiate che tre minuti di leggero fastidio valgono bene la salvezza dalla sofferenza una volta a bordo. Per quanto riguarda i tragitti a piedi, tenere un passo veloce vi terrà caldi a sufficienza per resistere anche alle temperature minime del caso in questione.

Caso 7°<t<12°: T-shirt + camicia + giacca light (intendo giacca dell'abito o giubbino sfoderato, dimenticate roba imbottita o pelosa). Per le motivazioni si riporta al caso precedente.

Caso 1°<t<7°: Avete il permesso di aggiungere all'abbigliamento del caso precedente un gilet di lana o sostituire la giacca light con qualcosa di più consistente, tipo giacca a vento leggera. Sono inoltre ammessi guanti, sciarpa e cappello, soprattutto per chi, come il vostro V.O.M.I.T.I. con la tessera numero Uno, soffre di canizie precoce ed espone la glabrità del proprio cranio alle intemperie. In nessun caso voglio vedervi con piumini trapuntati tipo omino michelin o parka con cappucci in pelo di marmotta che farebbero sudare un esquimese. Dovreste vergognarvi solo per averci pensato. Guardate sempre con disprezzo chi indossa capi antartici: sicuramente non vi trovate di fronte a veri V.O.M.I.T.I.

Caso t<1°: difficile che questo caso si presenti nelle zone temperate che fanno da ecosistema alla maggior parte degli attuali lettori di questo blog; sono tuttavia consapevole delle potenzialità di espansione  verso ogni latitudine della mia platea; pertanto sappiate, voi aspiranti V.O.M.I.T.I. delle regioni fredde, che sono permessi piumini corti non troppo imbottiti, da indossare rigorosamente sull'accoppiata standard T-shirt e camicia, senza strati intermedi.
E ricordate: la dignità prima di tutto.

Postille

Postilla ai casi pratici: se c'è qualche pignoletto che mi scrive che non ho affrontato il caso t=20° (o t=12°, o t=7°, o t=1°) giuro che mi metto a gridare come una pazza.

Postilla generale: avete appena finito di leggere il Capitolo Uno delle Regole di sopravvivenza per viaggiatori metropolitani. Per quanto riguarda il Capitolo Due, non ci contate troppo: se viene viene, se no, fatevene una ragione.

giovedì 14 novembre 2013

Il Capotavola

Il Comitato Direttivo della EX.treme Ltd. si riunì il primo lunedì del mese come ormai faceva da trentacinque anni a questa parte e, come in ogni riunione di settembre, l'ordine del giorno prevedeva, tra l'altro, l'approvazione degli obiettivi per l'anno successivo e la discussione sulle strategie di vendita. Il lungo e stretto tavolo rettangolare era circondato da undici poltrone in pelle nera di cui solo una, quella con i braccioli e lo schienale alto, era collocata in corrispondenza di uno dei lati minori, posizione che un qualsiasi avventore esterno avrebbe riconosciuto senza troppe difficoltà come il Posto d'Onore. Come di consueto, i Membri Anziani del Comitato Direttivo al loro arrivo trovarono la poltrona bracciolata già riempita dalla figura sottile e dinoccolata del Presidente Esecutivo del Comitato Direttivo; a dire il vero sembrava sedesse lì da anni, impeccabilmente elegante nel suo consueto gessato blu e con l'abituale atteggiamento del capo leggermente ricurvo sul petto. Nonostante la temperatura esterna fosse ormai gradevolmente settembrina, l'impianto di condizionamento pompava aria a 16° a umidità stabilizzata, l'ideale per permettere a tutti i membri di rimanere all'interno dei completi su misura, come d'obbligo in presenza del PrEsCoDir.

Il Presidente era nato centootto autunni prima. Dai primi anni '90 la sua partecipazione alle riunioni del CoDir era diventata sempre più silenziosa; all'inizio il cambiamento era percepito dai Membri Anziani del CoDir come un gradevole smussamento di quegli spigoli di aggressività che sempre ne avevano contraddistinto gli interventi ed era stato accolto benevolmente; poi anche gli ultimi residui di brio e di grinta tipici dell'uomo di polso cedettero il posto a muti cenni di assenso o di diniego col capo nei momenti decisionali, di solito con il sostegno fattivo del Segretario di Direzione che, rimanendo all'impiedi, con un fazzoletto di organza recante le iniziali JLM, gli asciugava diligentemente il mento dalla bava biancastra che colava dalla bocca semiaperta. In un giorno di primavera, durante l'approvazione del Bilancio 1995, i Membri Anziani del CoDir si accorsero che né i cenni di assenso né lo scorrere di bava mutavano più l'immobilismo del suo volto; il robusto Segretario di Direzione, dopo aver constatato che il respiro non increspava più le labbra presidenziali e che le membra stavano cominciando a irrigidirsi, dopo un breve e sussurrato consulto con i Membri Anziani, pensò bene di continuare a sostenere il PrEs sulla sua poltrona bracciolata: entro la giornata si doveva approvare il Bilancio, la Borsa Valori avrebbe aperto da lì a poche ore e non si poteva rischiare la mancanza della Guida Suprema in un momento così delicato e improcrastinabile. L'alternativa, proceduralmente corretta, rappresentata dalla scelta di una nuova guida, avrebbe avuto conseguenze nefaste, tra le quali non ultima l'apertura di una guerra senza esclusione di colpi all'interno del Comitato, con sicure e irrecuperabili ripercussioni sulla già labile stabilità interna e sull'immagine che ne avrebbe avuto il mercato. La cosa parve funzionare, il PrEsCoDir rimase al suo posto in quella e nelle future decisioni delicate e improcrastinabili (momenti che, come potete immaginare, si susseguono senza soluzione di continuità nella vita aziendale, soprattutto in quella di una realtà dinamica come la EX.treme Ltd) e col suo Ruolo dava ufficialità a tutte le determinazioni. Da allora la sua presenza alle riunioni fu sempre silenziosa, ma sufficiente ad approvare le linee del CoDir, come del resto previsto dal Regolamento Ufficiale delle Riunioni del Comitato che i Membri Anziani del CoDir si erano affrettati a modificare, inserendo opportunamente il principio del silenzio-assenso tra il paragrafo dedicato all'orario estivo e le norme sui rimborsi carburante.  
Durante i primi tempi si presentò il problema dell'odore: dapprima si decise, per silenzio-assenso, che all'interno della sala riunioni la temperatura dovesse conservarsi sempre a 10 gradi; dopo qualche giorno neanche questo accorgimento tampone fu sufficiente e il Comitato dovette affidarsi, con le solite procedure decisionali, a una squadra di esperti quanto discreti tassidermisti, i migliori su piazza. I risultati furono oltre le aspettative; in ogni caso gli imbalsamatori raccomandarono che la temperatura, per preservare i delicati colori naturali dell'incarnato del PrEsCoDir, non avrebbe mai dovuto superare i 18 gradi. I tessuti del Presidente risposero bene a queste cautele termiche che, coadiuvate da un'abbondante impiego di creme oleose di importazione, preservarono una parvenza di morbidezza epidermica che poteva essere facilmente scambiata per un piacevole indice di buona salute, considerata l'età anagrafica del PrEsCoDir.
Tutto filò liscio fino a quando uno dei Membri Anziani del CoDir fu vittima di un incidente automobilistico che lo obbligò a un lungo periodo di ospedalizzazione. Di regola in questi casi il Comitato avrebbe dovuto eleggere un Membro Temporaneo che lo sostituisse nelle sue deleghe, e fu subito chiaro che l'ingresso di un esterno, per di più temporaneo, in questa ormai consolidata procedura di governo aziendale avrebbe costituito un rischio non trascurabile. 

Quel lunedì di settembre del 2013, oltre alle strategie di vendita e agli obiettivi 2014, all'ordine del giorno c'era proprio questa delicata questione. 
Fu deliberato di procedere con trasparenza. Il Membro Temporaneo fu convocato e fu messo al corrente della situazione; questi, per il bene aziendale, comprese lo stato delle cose e accettò l'incarico senza troppe riserve, se non quella comprensibile di essere promosso a Membro Anziano. D'altronde la vita della EX.treme Ltd doveva andare avanti.

Carnevale della matematica #67



Sul Coniglio Mannaro, il blog di Spartaco Mencaroni, è stato appena pubblicato il Carnevale numero 67. Roba buona da gustare con calma. Buona lettura.

venerdì 1 novembre 2013

I say i' sto ccà (1)

Era il tempo degli stivaletti e delle Simca, dei contestatori che contestavano, della Democrazia Cristiana che democratizzava cristianamente il paese, di qualcuno che in periferia moriva di overdose e delle radio libere che mettevano alla prova un nuovo tipo di intrattenimento, fatto di musica e informazione di quartiere e che, tra la notizia di un'occupazione e un approfondimento junghiano, lanciavano nell'etere un miscuglio di songs d'oltremare e di melodie nostrane.
Fu allora che cominciò a circolare una voce tra noi preadolescenti impegnati negli ultimi anni di elementari: ascoltate il nuovo pezzo di quel cantautore napoletano, si diceva, un certo Pino Daniele mi pare, ma sì, quello che non si capisce che dice. Pare sia una vera bomba.
Già le musiche di PD avevano elementi a loro modo rivoluzionari: il funky/blues importato da oltre oceano arricchiva la struttura melodica con armonie sconosciute alla canzone d'autore italiana, che al contrario era tutta basata sui soliti quattro accordi maggiori/minori; i testi in dialetto napoletano ai limiti della comprensibilità anche per gli autoctoni sembravano fare a botte con quella voglia di internazionalizzazione che albergava nei provinciali musicisti di casa nostra, e se non li capivi, beh, fatti tuoi (2); gli arrangiamenti erano da urlo, i musicisti pezzi da novanta (3). Ma quel brano aveva qualcosa di più: se stavi bene attento, alla fine dell'ultima strofa ci trovavi una parolaccia. Una di quelle vere, incisa lì su vinile, pronta all'uso nella sua ufficialità. Mica roba da poco in quanto a rottura: un sonoro e stranamente comprensibilissimo nun ci scassat 'o cazzo.
Il patto che fu stretto tra di noi bimbetti era semplice e chiaro: tornare a casa, girare la manopola della radio fin quando non avessimo incontrato la canzonetta incriminata (non era difficile in quel bailamme in FM), chiamare la mamma (che con il papà poteva essere rischioso), farle ascoltare tutto senza annunciare il finale e vedere l'effetto che avrebbe avuto sulla sua indole reazionaria, il tutto provando, se possibile, a trattenere le risate. Era il massimo che si potesse concedere alla ribellione nella mia casa piccolo borghese di inizio anni ottanta. Uno iato generazionale in fieri.




Un PD d'epoca dal vivo, je so pazz, su 
alcuni browser non si vede, non so perché.


Poi venne il tempo del liceo, dei paninari e di Drive In, e della prima chitarra che, nel mio immaginario, avrebbe dovuto dischiudermi i segreti della melodia e dell'acchiappo; e PD diventò per me quello dell'assolo flamencheggiante di Appocundria da tirare giù nota per nota ascoltando all'infinito la TDK con su registrato Nero a Metà.
Poi, come spesso accade, gli eventi portano a distrarsi e a rivolgere l'attenzione ad altri lidi, altre musiche, altri assoli. Del resto il grande Pino aveva più o meno dato il meglio in quegli anni e nei pochi successivi (4).
Rimane però uno dei pochi che a riascoltarlo mi fa sentire 'o fridd 'ncuoll.
E niente, questo vuole essere un omaggio.

NOTE
(1) Titolo di un brano di PD che, tradotto nelle lingue a noi più familiari, suona più o meno come "io sono proprio qui", o anche "I am in here". Vi dice qualcosa?
(2) Sono tra quelli (*) che credono che i testi di Pino Daniele stiano lì non perché vogliano esprimere chissà quali immagini o concetti, ma solo perché sono sufficientemente musicali per andare bene con le melodie. Ritornelli facili da canticchiare, memi efficaci, niente di più.
(3) Sono anche tra quelli (**) che pensavano che dietro i dischi di PD ci fossero tutti i vari DePiscopo/Avitabile/Esposito/Senese di quella Swinging Naples di fine settanta/inizio ottanta, e che poi, grazie a wikipedia, si sono accorti che tra i Credits trovi al massimo Rino Zurzolo al basso.
(4) Se non  vi bastasse, sono pure tra quelli che credono che i musicisti esprimono il proprio meglio a livello creativo nei primi sette o otto anni di carriera (***). Alcuni in questi sette anni riescono a comprimere tredici tra i migliori dischi di sempre (Beatles), altri, meno apicali, ce ne infilano tre o quattro, e va bene anche così. Pino Daniele da Terra Mia a Bell'Ambriana ha fatto un ottimo lavoro, bisogna ammetterlo.

Subnote
(*) non credo ci siano gruppi di appartenenza di questo tipo, o comunque io non ne conosco, quindi potete considerare l'espressione un mero artificio retorico.
(**) la teoria dei gruppi di pensiero umani è sufficientemente flessibile da permettere l'appartenenza a più clubs.
(***) per gli scrittori è diverso, ma questa è un'altra storia.

giovedì 10 ottobre 2013

Città o campagna? Un esperimento sociale

Ebbene sì, sono un cittadino. Nel senso letterale di chi ha impostato la propria vita attorno al quel luogo geografico identificato nel sussidiario di mia figlia come metropolitano. Paradossalmente, sempre più spesso quando ci si incontra tra di noi cittadini si parla di come sarebbe bello, liberatorio, rigenerante, ecocompatibile, antropomorfico, giusto, equilibrato vivere in campagna. O perlomeno in un piccolo centro a misura d'uomo donna e bambino come quelle decine di delizioooosi paesini che ancora costellano la penisola e la regione dove risiedo. Chiacchierando amenamente di tali questioni si tirano spesso in ballo, oltre alle misure ed ecologie di cui sopra, anche le propensioni dei singoli, e prima o poi viene sempre fuori quello che dice sì, è più a misura d'uomo, ma oltre a questo c'è di base che a me la campagna il paesino la natura mi piacciono, lì sarei me stesso, io non sono nato per vivere in città. 
E' a quel punto che di solito mi chiedo: ma come fate a sapere per cosa siete nati? Come riuscire a capire se la scelta che fareste dipende da inclinazioni personali separate dai vincoli materiali? Tradotto: non vale dire preferisco la città perché sono vicino al lavoro, o perché la mia famiglia è qui, e le scuole, i cinema, i teatri e tutto il resto, oppure preferisco la campagna perché di mestiere scrivo biografie e non voglio essere distratto dai clacson; io voglio analizzare i vostri desideri reali, le vostre inclinazioni autentiche, il vostro "io" più profondo. Mica sto qui a infilare collanine.
Qualche giorno fa parlavo di queste e altre sciocchezzuole con tre amici e ho tirato fuori quella vecchia questione degli esperimenti che Federico II metteva in pratica con l'intento di individuare quale fosse il linguaggio naturale dell'uomo: il buontempone sceglieva a caso tra i suoi sudditi alcuni neonati e li rinchiudeva in una prigione completamente isolata dal mondo, concedendo loro solo sostentamento materiale (cibo e acqua) e impedendo in maniera categorica a chi si occupava dei piccoli di fornire loro stimoli affettivi, parole, contatti, sguardi, persino semplici gesti. L'intento del bravo sovrano era capire che linguaggio avrebbero sviluppato spontaneamente quei pargoli, una volta eliminati tutti i vincoli culturali e le influenze esterne. Scoprire una volta per tutte qual'è la preferenza linguistica dell'umanità, l'idioma innato. Bell'obiettivo. Peccato che quei bimbi, essendo esseri sociali, non svilupparono alcun linguaggio naturale, e non ebbero nemmeno il tempo di porsi il problema, visto che si lasciarono morire di tristezza entro poche settimane.
Vogliamo sapere quali sono le nostre preferenze reali? Vogliamo scoprire una volta per tutte cosa sceglierebbe ogni elemento di questo consesso di quattro uomini se posto di fronte al dilemma città-o-campagna? Urge un esperimento, ho esclamato. E per fare un esperimento serve una cavia. 
Tipica figlia di vent'anni che, interpellata,
si accinge a un'educata risposta.
I tre esemplari di cittadini che avevo attorno nel momento della mia decisione si sono subito dimostrati recalcitranti: quando ho parlato di esperimenti e cavie Ugo ha fatto finta di ricevere una telefonata e mentre rispondeva col labiale ci diceva tengo-la-suoneria-bassa, Lillo guardava in basso, Michele bofonchiava che lui, in quanto personaggio virtuale, inventato al solo scopo di riempire qualche riga di un post in se stesso abbastanza vuoto, non poteva essere oggetto di un esperimento reale .
Non avendo a portata di mano alcun volontario adulto, e vista l'esperienza fatta otto secoli fa dallo Svevo, mi sono affrettato a escludere dalle ipotesi anche i minori che avevo a disposizione (oltretutto sarebbe quanto meno tardivo isolare le mie figlie per una quindicina d'anni e poi piombare nella loro cameretta, fare slalom tra gli escrementi e chiedere vi-piace-più-la-città-o-la-campagna, come minimo mi beccherei un verdoniano "a stronzo, punto esclamativo"). 
A quel punto non mi rimaneva che utilizzare un soggetto probabilmente meno gradevole esteticamente rispetto a una cavia ma che se non altro ritengo sufficientemente duttile e gestibile: me stesso.
Il quesito da sbrogliare era: qual è il paesaggio con cui vorrei incorniciare le mie giornate, al netto dei vincoli di cui sopra? Strade e palazzi o campi e mulattiere? Dove punta la mia più profonda indole, il mio puro senso estetico, il mio "io" reale?
Cavie. Che carine.
Quella sera, congedati gli ospiti pusillanimi e depennati i loro riferimenti dalla mia rubrica telefonica, ho organizzato l'esperimento in questi termini: ho preso il soggetto (non prima di aver indossato dei robusti guanti in lattice), l'ho ripulito da tutti gli orpelli che potrebbero influenzare le sue scelte: famiglia, lavoro, aspettative sociali, ambizioni, influenze di terzi, amicizie. L'ho spogliato anche dei vestiti. Ho ottenuto un esemplare asettico, esattamente nelle stesse condizioni in cui si presenta la domenica mattina quando esce per correre (tranne per il trascurabile particolare che indossa scarpe e calzoncini): niente orpelli né vincoli che lo influenzano, completamente libero di scegliere i percorsi e il paesaggio di sottofondo per le successive due ore.
(Nota intertestuale: una situazione di totale libertà di scelta il soggetto ce l'avrebbe anche nelle rare serate libere dedicate al cazzeggio, ma in quei casi decide di esprimere la propria libertà costringendola in angusti limiti, come a dire il massimo della libertà di scelta è scegliere di non scegliere: solito locale, solito tavolo, solita consumazione).
Il soggetto di cui sopra, dicevamo, ha un ventaglio ampio di alternative da cui attingere quando esce per correre, e piena libertà di elezione: dalla campagna più impervia, alla prima periferia, al centro urbano più sfacciato; dal paesaggio silvestre di Villa Ada, con sentieri sterrati e celati che farebbero perdere l'orientamento a un boy scout; alla ginnica e modaiola Villa Pamphili, con i suoi percorsi misurati e gli spogliatoi; alla borghese Villa Borghese, ricamata da ampi viali costeggiati da statue marmoree; alla pista ciclabile del lungotevere nord, regolare e veloce; a quella del lungotevere sud, un po' più urbana e con tratti da media periferia; fino al percorso interamente urbano e turistico "der centro de roma". È in questo caso che la libertà di scelta è piena di esprimersi verso le proprie inclinazioni.
E che ti combina il soggetto? Svincolato da lacci e lacciuoli ti snocciola un tragitto che tocca Piazza del Popolo, Via del Corso, Piazza Venezia, Fori Imperiali, Colosseo, Circo Massimo, Lungotevere dei Tebaldi, San Pietro. Non so se mi spiego: il massimo dell'espressione metropolitana. Il massimo del caos (pur stemperato dal fatto che sono le sette di mattina di domenica). Con buona pace del percorso natura.
Ecco perché sono un cittadino.

venerdì 6 settembre 2013

Note intertestuali riportate tra asterischi

Di seguito alcune domande disperate che David Foster Wallace ha cercato di far passare in un suo scritto (1) camuffandole con il trucco formale delle citazioni intertestuali, relegando tali questioni veramente pressanti tra asterischi come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche cagata del genere (sic).

**Sono io una brava persona? Nel profondo, voglio poi davvero essere una brava persona, o voglio solo sembrare una brava persona in modo che la gente (incluso me stesso) mi approvi? C’è differenza tra le due cose? Come faccio a sapere davvero se mi sto prendendo per il culo da solo, moralmente parlando?**
**Cosa significa esattamente “fede”? Come in “fede religiosa”, “fede in Dio” eccetera. Non è folle credere in qualcosa di cui non si ha la prova? C’è davvero differenza fra ciò che chiamiamo fede e il sacrificare vergini ai vulcani nelle tribù primitive che credono di attirare così il bel tempo? Come si fa ad avere fede finché non ci vengono dati sufficienti motivi per averne? O forse avere bisogno di avere fede è già di per sé motivo sufficiente per averla? Ma allora di quale tipo di bisogno stiamo parlando?**
**Il vero senso della mia vita è semplicemente provare meno dolore possibile e più piacere possibile? Di certo il mio comportamento sembra indicare che è questo che credo, almeno per gran parte del tempo. Ma non è un modo un po’ egoistico di vivere? Lasciate perdere l’egoistico – non è paurosamente solitario?**
**Ma se decido di decidere che la mia vita ha un senso diverso, meno egoista, meno solitario, il motivo per questa decisione non sarà il mio desiderio di essere meno solo, e cioè di soffrire meno nel complesso? Può la decisione di essere meno egoista essere mai altro che una decisione egoista?**
**E’ possibile davvero amare altre persone? Se mi sento solo e sofferente, chiunque al di fuori di me è un potenziale conforto: ne ho bisogno. Ma è possibile amare davvero ciò di cui si ha tanto bisogno? Grossa parte dell’amore non è forse tenere di più ai bisogni dell’altro? Come ci si aspetta che io subordini il mio bisogno soverchiante ai bisogni di un altro che non posso neanche sentire direttamente? Eppure se non riesco a farlo sono condannato alla solitudine, cosa che decisamente non voglio… rieccomi quindi a tentare di superare il mio egoismo per motivi di interesse personale. Esiste una via d’uscita da questa trappola?**

Ora, potete anche provate a convincermi che per voi queste questioni non sono primarie, non rivestono carattere di urgenza oppure che le avete già risolte in passato in maniera soddisfacente. Ma sappiate che ho il diritto di non credervi.

(1) “Il Dostoevskij di Joseph Frank” [1996 (occhio alla data)], saggio fondamentale per capire alcune urgenze morali di Wallace.



martedì 30 luglio 2013

Il concerto rock come paradigma di una serie di riflessioni sull'Intrattenimento, tipo:


Che c’è un Qualcosa che induce ottantamila persone a pagare una cifra considerevole per radunarsi in un luogo delimitato soffocando il naturale istinto alla conservazione di uno spazio vitale attorno al proprio corpo e superando le immaginabili difficoltà di raggiungere il suddetto luogo, quelle del parcheggio e quelle di trovare il tempo da investire nell'attività; che quel Qualcosa non può essere semplicemente il desiderio di vedere il proprio gruppo rock preferito che suona i pezzi che sappiamo a memoria per averli ascoltati migliaia di volte (per questo basterebbe un buon video ad alta definizione); e che quel Qualcosa può assai di più essere spiegato dagli stessi meccanismi che inducono una folla in un rito religioso di massa o dal bisogno di appartenenza ad un gruppo primario di identificazione, e che la sensazione per cui si è disposti a pagare è quella del Sono-Qui-Insieme-A-Migliaia-Di-Altre-Persone-Con-La-Mia-Stessa-Passione.

Un ipotetico concerto allo Stadio Olimpico
Che si può ipotizzare l'esistenza e tentare la misurazione di un parametro G, "valore di attrazione Gravitazionale del palco", definito come capacità dell'artista e/o dello spettacolo in corso di attirare verso di sé gli astanti (intesi come spettatori liberi di muoversi su un piano bidimensionale orizzontale A senza vincoli di posti numerati, barriere, security men: il prato di uno stadio durante un concerto rappresenta bene il modello). G sarà variabile tra 0 e 1, intendendo zero come attrazione nulla, ossia spettatori che vagano liberi nel piano A senza particolari focus di addensamento, se non minimi e temporanei assembramenti attorno a chioschetti di birra e altri beni di prima necessità (un kebabbaro ha per esempio un buon valore addensante anche se presenta un limite dovuto al trade-off tra fame e fila da fare per ottenere il panino); se siete ad un concerto con G=0 chiedetevi pure perché ci siete andati. G sarà invece uguale al valore massimo (uno) se ognuno dei presenti è indotto a spostare il proprio corpo quanto più possibile in direzione del palco, avendo come unico limite il corpo degli altri spettatori e il principio di impenetrabilità (non si accettano battutine a doppio senso sulla paventata promiscuità sessuale dei concerti rock).
Normalmente i valori di G durante un concerto di primaria importanza si attestano intorno ad un discreto 0.8, che indica un affastellarsi di corpi in prossimità del palco (calca pressante dovuta alla maggiore vicinanza con l’origine della forza misurata con G), e a una progressiva diminuzione della densità man mano che si procede verso metà campo, fino ad assistere ad uno sfilacciamento delle masse in prossimità dei limiti del prato opposti al palco, fenomeno che potrebbe dare vita a spazi relativamente ampi dove si può addirittura trovare il modo di stare sdraiati su una coperta da picnic.

Che, sempre durante un ipotetico concerto in uno stadio, è possibile percepire ciò che accade sul palco senza guardarlo direttamente, ma limitandosi ad osservare gli schermi degli smartphone che riprendono la scena come se fossero ognuno un pixel di uno schermo più grande, avendo come unica accortezza quella di collocarsi in posizione sufficientemente elevata da permettere di abbracciare un buon numero di devices. L’effetto di fedele riproduzione dello spettacolo è tanto migliore quanto più è forte il contrasto cromatico della scena riprodotta: se sul palco vengono proiettate immagini a forte contrasto -immaginiamo uno sfondo azzurro con un muro di mattoni rossi che va formandosi pian piano- lo spettatore sopraelevato che guarda gli schermi degli iphones e similia ne osserverà alcuni con lo schermo principalmente azzurro (quelli che riprendono soprattutto porzioni azzurre del palco), altri con lo schermo predominantemente rosso (quelli che stanno inquadrando zone del palco ad elevata densità di mattoni). L’effetto sarà una composizione di schermi azzurri e rossi che rifletterà statisticamente la densità degli stessi colori sul palco. Qualcuno, in preda a sostanze psicotrope, potrebbe azzardare l’ipotesi che, avendo a disposizione un numero infinito di smartphone di cui sbirciare gli schermi, l’immagine osservata da lontano potrebbe riprodurre in dettaglio qualsiasi scena mostrata sul palco, persino il chitarrista che fa un assolo. Quest’ipotesi però, a mio parere, per funzionare avrebbe bisogno non solo di infiniti telefonini, ma anche di un tempo infinito di osservazione, per far sì che la scena riprodotta dall’insieme dei pixel (gli infiniti telefoni) abbia modo di riprodurre casualmente l’esatta realtà del palco.

mercoledì 3 luglio 2013

Ansiosi e dormiglioni


Ero lì che leggevo di uno scrittore americano che, terrorizzato da tagli, correzioni e dalle altre operazioni di editing che avrebbe potuto subire il suo enorme manoscritto, e con la subconscia ansia causatagli dalle regole ferree impostegli durante l'infanzia dalla madre insegnante di grammatica prescrittiva, scrisse una nota precauzionale alla propria casa editrice:

Al correttore di bozze:
Ciao. P. C.: le seguenti caratteristiche non-standard presenti nel ms. sono scelte volute, e qualunque Vostra correzione verrà annullata dall'autore:
- virgolette semplici per indicare dialoghi & titoli, e virgolette in coppia all'interno - inversione dell'ordine consueto. (1)
- nomi comuni e verbi fraseologici in maiuscola come Sostanza, Malattia, Entra Dentro ecc.
- neologismi, catacresi, solecismi e infrazioni sintattiche nelle sezioni che riguardano Minty, Marathe, Antitoi, Krause, Pemulis, Steeply, Lenz, Orin Incandenza, Mario Incandenza, Fortier, Foltz, J. O. Incandenza sr, Schtitt, Gompert.
- congiunzioni multiple all'inizio di proposizioni principali.
- virgole prima di preposizioni posizionate alla fine di una frase.
- trattini per formare termini composti.
- lacerti di frasi a seguire frasi eccezionalmente lunghe.
- suddivisione in paragrafi incoerente, e paragrafi estremamente lunghi.

E mi chiedevo quanto potrebbe aver sofferto lo stesso scrittore se fosse in qualche modo venuto a conoscenza dei refusi disseminati nella traduzione italiana (la maggior parte probabilmente attribuibili non all'autore ma all'editing, e comunque che pretendete dalla prima traduzione mondiale in ordine di tempo di un tomo di tal fatta?).
E poi passavo senza alcuna apparente soluzione di continuità a considerare che, se ti trovi fuori casa, una chiesa può rappresentare il luogo ideale per correggere bozze (ma anche per scrivere, leggere, pensare e riposare al fresco d'estate e al caldo d'inverno), e il bello è che nessuno ti chiede conto della tua presenza e del tuo silenzio (2), e che anche il Mc Donald riesce ad offrire questi vantaggi, se sei disposto a cedere una buona dose di silenzio e tranquillità che solo il tempio ti può garantire per ottenere un bagno accessibile e pulito.
Ero lì che valutavo i pro e i contro dello scambio quando la mia attenzione venne attirata da un verso gutturale a bassissima frequenza, come un russare, anzi era proprio uno che russava, e mi accorsi che il cinese che avevo di fronte nel vagone della linea per Rebibbia si era addormentato in piedi, appena appoggiato con la schiena alla porta scorrevole; e niente, mi chiedevo come fanno 'sti cinesi a dormire in qualsiasi posto e in qualsiasi posizione, sarà che hanno un gene-del-sonno-qui-dove-mi-trovo, boh.

Basilica dei SS Ambrogio e Carlo
(foto da Wikipedia)
Note:
(1) mi rendo conto di quanto sia superficiale l'attenzione che la scuola italiana riserva all'insegnamento della punteggiatura. Per quanto posso testimoniare dal corso dei miei studi, non ricordo nemmeno un accenno all'uso -ormai diffusissimo, e non solo nella letteratura anglosassone- dei trattini e ne ricordo uno sfuggevole a quello delle virgolette; e dalla quotidiana lettura di scritti di ogni tipo (mail, post, articoli, sintesi, analisi, presentazioni) mi appare palese come l'importanza di un corretto uso della punteggiatura sia quantomeno sottovalutata.
E ora mi aspetto una serie di commenti a correzione degli errori di punteggiatura che troverete nel presente post.
(2) la Basilica dei SS Ambrogio e Carlo, su via del Corso, costituisce un eclatante esempio di quanto affermo: attraversare i tre metri dell'ingresso e passare dai rombi, le sirene, il vociare e la calca umana del centro di Roma nel periodo dei saldi estivi al frescolino e alla quasi assoluta quiete della navata centrale è una sensazione impagabile. E lo spazio per sedersi in tutta tranquillità abbonda. La Basilica dei SS di cui sopra si presta ottimamente alla bisogna anche perché, non custodendo opere d'arte di richiamo internazionale, non è frequentata da sciami di turisti algidi e sudaticci (a meno che non conoscano a menadito i lavori di  Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone). Provateci: effetto fuga garantito.

venerdì 21 giugno 2013

Effetto treno

Non so quanti di voi, in determinate fasi della vita, per vicissitudini causate da difficoltà logistiche, da verifiche sull'impatto ecologico delle proprie scelte, da calcoli dei costi connessi agli spostamenti o, semplicemente, perché poco avvezzi alla guida di mezzi di locomozione privati, abbiano avuto occasione di muoversi con gli autobus urbani.
Quelli tra di voi che lo hanno fatto, probabilmente si saranno accorti che alle fermate i mezzi pubblici su gomma sovente sopraggiungono in serie, nel senso che per un bel po' non ne passa nessuno e poi ne passano due o tre uno dietro l'altro. Come le onde oceaniche. Ai fini dell'analisi che segue, permettetemi di chiamare questo curioso fenomeno: "effetto treno".
Se vivessimo in un mondo ideale (o a Zurigo) le partenze degli autobus dal capolinea sarebbero intervallate regolarmente, il traffico sarebbe uniformemente distribuito su tutto il tragitto, come pure sarebbe costante il tempo di attesa dei mezzi ai semafori e agli stop. Inoltre le persone in attesa sarebbero equamente distribuite su tutte le fermate e approderebbero alle stesse in un flusso continuo e regolare, come la soluzione fisiologica nell'ago di una flebo. In questo mondo ipotetico (e a Zurigo) l'effetto treno non esiste.
Se una qualsiasi delle meravigliose caratteristiche qui sopra elencate viene meno, il sistema generale subisce una perturbazione. Io ipotizzo che l'effetto treno sia causato da un disallineamento qualsiasi delle regolarità sopra descritte, e che questa "perturbazione iniziale del sistema" venga amplificata enormemente dal fatto, misurabile, che il tempo di sosta del bus alla fermata è direttamente proporzionale al numero di persone che salgono o scendono.
Se un bus non passa da un po' (per una qualsiasi delle perturbazioni alle ipotesi del mondo ideale: ad esempio un'auto parcheggiata in seconda fila che fa perdere tre minuti a uno degli autobus di una determinata linea, mezzo che chiameremo A), alle fermate successive si accumuleranno più persone in attesa. Ciò significherà, all'arrivo di A, tanta gente che deve salire (e scendere) e che farà perdere tempo tra vari "se non mi fa prima scendere poi lei non può salire" o "più avanti c'è spazio" o ancora "ma qui siamo nel terzo mondo": quindi il mezzo A, che all'inizio portava solo un lieve ritardo, dovrà sostare più a lungo, e ci saranno buone probabilità che l'autobus seguente (che a sorpresa chiameremo B, e che è partito alla cadenza programmata dal capolinea) riduca progressivamente la sua distanza da A. Di contro B arriverà alle fermate dopo che è passato A, che ha raccolto la maggior parte delle persone in attesa. Pertanto avrà minori tempi morti alle fermate (a volte anche zero) e maggiori probabilità di raggiungere A alle fermate successive. Una volta che B raggiunge A, non potendo sorpassarlo (1), terrà questa posizione a treno per tutta la durata del tragitto.
Stimo che in momenti particolarmente affollati i tempi di attesa alle fermate si allungano talmente tanto che in sette/otto fermate dal capolinea un autobus viene raggiunto dal successivo.
Visto che una linea urbana dalle mie parti prevede circa quaranta fermate, se ne deduce che A percorrerà gran parte del viaggio in una lunga e festosa fila con i vari B, C, e forse anche D, con un effetto treno di sicuro impatto scenografico ma dalle conseguenze devastanti sulla già fragile psiche dell'utente medio (2).

Note:
1) Questa regola di divieto di sorpasso tra autobus di linea non so se sia scritta o sia una semplice consuetudine, ma pare che nessun romano possa raccontare di aver visto due mastodonti arancioni che si fanno "lo sgarbo" senza essere sospettato di essere un cazzaro.
2) Ok, lo ammetto, non si tratta di un'analisi geniale che rivoluzionerà il sistema dei trasporti urbani, ma sappiate che ci ho pensato parecchio prima di scrivere sta cosa qua. Ognuno arriva dove può.

martedì 18 giugno 2013

I cento passi



Il mio quotidiano tragitto casa-ufficio prevede nell'ordine: bus, metro A e metro B (viceversa quello ufficio-casa). Tra un mezzo di trasporto e il successivo, percorro dei tratti a piedi, in tutto circa duemilacento passi, durante i quali sono costretto giocoforza a interrompere la lettura e a stare un minimo attento a dove metto i piedi. Di solito ne approfitto per sollevare lo sguardo e spaziare su paesaggi urbani e scene di varia umanità.
I cento passi del titolo sono quelli che vanno dalla fermata del bus nei pressi di piazzale degli eroi fino all'incrocio con via giulio venticinque, molto interessanti da un punto di vista antropologico/faunistico.
A mo' di esempio descrivo quelli di ieri.
Prime trenta falcate con passaggio davanti al grosso edificio che ospita una scuola media pubblica, l'anno scolastico è finito ma davanti all'ingresso sostano cinque o sei gruppetti di adolescenti in attesa di entrare per qualche attività estiva, raccolti rigorosamente per etnia, senza alcuna commistione: i neri stanno coi neri, gli asiatici con gli asiatici, i romani tra di loro; dieci passi dopo, da una smart con gli interni in pelle rossa esce una quarantenne anch'essa rossa, pluriaccessoriata, fisico prorompente, abitino svolazzante, iphonecinque all'orecchio e borsa fendi, attrae gli sguardi degli astanti nell'officina per scooter proprio di fronte; ancora diciotto passi e una donna della stessa età ma dalla pelle decisamente più scura fruga in un cassonetto aiutandosi con un uncino ricavato da una vecchia gruccia per abiti; ventidue passi più in là sosta il camioncino per la raccolta sperimentale dell'umido, una coppia matura apparentemente dello stesso ceto sociale della rossa lascia diligentemente il proprio sacchetto con i resti di una cena basata (ci scommetterei dieci a uno) sulla dieta dukan; i successivi venti passi sfilano lungo due bancarelle tenute da pakistani, la prima vende cenci "tutto a 5 euro", la seconda jeans femminili attillatissimi esposti su manichini ipersexy.
Sta a voi unire i puntini e capire cosa ne esce fuori. E ricordatevi che il superfluo esiste sempre unicamente per farsi prendere a calci in culo.

lunedì 17 giugno 2013

Carnevale della matematica #62


L'annuncio è un po' tardivo, ma vi segnalo che lo scorso venerdì si è tenuta l'edizione 62 del Carnevale della matematica, ospitata stavolta dall'esimio Popinga sul suo blog di scienza e letteratura. Tema del mese: matematica e genio.
Vale la pena fare il giro completo: l'organizzazione è impeccabile e i contributi golosi.

mercoledì 12 giugno 2013

Storia di panza e di sostanza

E' successo qualcosa, stasera.
Uno di quegli eventi che pare disorientare il sistema di valori al quale credevi di aver aggrappato la tua vita. O meglio. Che dimostra come il tuo sistema di valori non è l'unico ipotizzabile, che la lista delle priorità dipende da troppe variabili, dalla cultura, dalle esperienze, dai geni, dal ceto sociale, dal sesso, dall'età, dall'etnia.
L'evento è accaduto sulla metro, crocevia e amalgama di tutta quella roba che ho elencato qualche riga sopra, nonché microcosmo adatto a esperimenti con cavie umane. 

Alla fermata di Circo Massimo solite procedure di sbarco-imbarco: le porte si aprono, gente scende, gente sale, le porte si chiudono. Tra la fine della fase tre e l'inizio della quattro, una coppia di ragazze rom si accingono a salire a bordo, avranno 35 anni in due, la prima si infila dentro agilmente, la seconda è incinta di almeno otto mesi e prova a seguire la prima, ma la fase quattro è in pieno svolgimento, e le porte stanno già scorrendo sui propri binari. Ecco che la ragazza col pancione, avendo già mezzo corpo dentro (il pancione) e mezzo fuori (il resto) prova a opporsi alla pressione meccanica che le porte stanno già facendo sul feto e sul suo involucro aiutandosi con la forza delle proprie manine di sedicenne. 
Ora, io, nella mia decennale vita di pendolare metropolitano, quell'esperienza di oppormi alla fase quattro con le mie forze di maschio quarantenne per nulla flaccido, anzi, modestamente, in discreta forma, l'ho fatta talvolta, e vi comunico che non è roba da poco: non è sufficiente appoggiarsi dolcemente come alle porte dell'ascensore, qui c'è da fare forza, e parecchia. E lei ci riesce così, con la consistenza gommosa del feto che porta in grembo e con le proprie manine di sedicenne. Rischiando. Forte. (Il tutto dura talmente poco tempo da non dar modo a nessuno degli astanti, me compreso, di intervenire). E alla fine, quando sente le porte che cedono e con un cigolio si riaprono, semplicemente sorride, senza nessun ansia sul viso, come si sorride a una piccola vittoria per una qualunque scommessa come tante altre nella vita. 
Immagino capirete che questa scena ha lasciato il segno in un osservatore come il sottoscritto pennuto, che pone il benessere della prole all'incontrastato primo posto in una ipotetica scala dei valori fondamentali della vita. Ancora di più perché questo osservatore credeva di avere compreso che il fondamento della sopravvivenza della specie, ben cablato all'interno delle pieghe aminoacidiche di tutti gli esseri viventi, fosse proprio la tutela della prole, a qualunque costo.Forse esagero, e questa storiella è semplicemente esemplificativa dell'incoscienza di un particolare individuo, per di più nell'età adolescenziale, e non del minor valore che un'intera etnia dà a una vita che nasce rispetto ad altre (pensate che ci sono etnie che mettono in discussione pure la pillola del giorno dopo); né tantomeno è un segnale di come alcuni istinti di conservazione della specie stanno via via sparendo facendoci prevedere un breve futuro di edonismo senile.
Fatto sta che il disagio lo sento ancora attaccato addosso. 
Ecco, mi chiedo (e vi chiedo) se questa sgradevole sensazione nell'osservare un completo sovvertimento dei propri valori di base in un individuo ben collocabile all'interno di un gruppo diverso dal proprio non possa chiamarsi "razzismo".

domenica 9 giugno 2013

Loop

Lo smodato apprezzamento per il vincolo di brevità proposto da Twitter mi fa trascurare il blog. Ma non credo ne sentiate la mancanza.

mercoledì 15 maggio 2013

Carnevale della matematica #61

Siamo alla edizione 61 del celeberrimo Carnevale della matematica, questo mese ospitato dal tuttologo beatlesiano Maurizio Codogno sul suo inossidabile notiziole di .mau.
A parte l'unica pecca di aver accettato il delirante contributo del vostro tacchino sul concetto di infinito nell'antichità, per il resto il carnevale è stratosferico.
Non perdetevelo.

martedì 7 maggio 2013

Compilando un settetrenta

Messaggio all'Agenzia delle Entrate: quando faccio acquisti in farmacia mi chiedete il codice fiscale. Lo scontrino deve essere parlante, dichiarare senza ombra di dubbio tipologia dell'acquisto, identità dell'acquirente, detraibilità, deve persino far trapelare ipotesi di patologie. Non voglio pensare che tutte queste preziose informazioni vadano sprecate, al giorno d'oggi sono oro, lo sapete perfino voi, sono sicuro che le stipate da qualche parte, su un database in qualche server lontano.
Ebbene, mi dite perché cazzo ad ogni maggio devo ritirare fuori dai cassetti scontrini accartocciati e sbiaditi, devo tentare di leggerli con una lente d'ingrandimento in una mano e un prontuario nell'altra stando attento a sommare solo i farmaci detraibili che altrimenti poi mi fate l'accertamento, poi devo fare le fotocopie di tutto per il CAF e riempire a mano le caselle su un modello 730 che ha l'unico fottuto scopo di comunicarvi informazioni che già avete?
Un cordiale saluto.

sabato 27 aprile 2013

Infinito (number 1)




I bambini non hanno un concetto chiaro di infinito. Per loro è facile confondere l'inesauribile con il tantissimo, l'indefinito con l'enorme, l'illimitato con i miliardi di miliardi. Del resto Superman se vuole può volare con una velocità infinita, come infinito è il bene che si vuole al papo o il dolore che si prova per un graffio. Il primo contatto reale che hanno con il vero infinito è quando imparano sul serio a contare (andando oltre la sterile cantilena unoduetrequattro dell'infanzia) e capiscono il meccanismo dei numeri naturali e la potenzialità dell'aggiungere sempre un'unità. Ma non si pongono poi tanti problemi, l'infinito continua ad essere una cosa molto molto grande, ma alla fine confrontabile tranquillamente con il numero dei capelli o con quello dei granelli di sabbia.
Del resto è un concetto che anche nel corso della storia è rimasto per lungo tempo poco chiaro.



Nick Cage e la sua giacca simbolo
Aperta parente. Ribadisco ove ce ne fosse ancora bisogno  per i consueti visitatori e annuncio per la prima volta ai (spero quasi infiniti) nuovi ospiti, che questo modesto blog è l'unico posto dove posso davvero fare quello che mi pare; lo considero un po' come la giacca di pelle di serpente di Sailor (Nicolas Cage) in Cuore Selvaggio: rappresenta il simbolo della mia individualità e la mia fede nella libertà personale, libertà che stavolta ho deciso di utilizzare per ammorbarvi con qualche vaga e imprecisa nozione storico-matematica sul concetto di infinito nell'antichità (1). Tranquilli, ci metto qualche foto colorata qua e là così vi rendo più leggero l'ingrato compito di arrivare fino in fondo. E chiusa parente.

L'idea di infinito non è mai stata immediata e di facile comprensione per l’essere umano. L'estrema astrattezza ne fa da sempre terra di paradossi e veicolo di timori reverenziali, quando non proprio simbolo dell'assurdo e del malvagio.
I babilonesi e gli egizi, primi popoli ad avere un approccio matematico ad alcuni problemi pratici (misure di campi, astronomia, astrologia, calendari, questioni ereditarie) non l'hanno nemmeno sfiorata. Per loro poteva essere oggetto di calcolo o di indagine solo ciò che era ben concreto e di immediata utilità.
Altri che in seguito hanno provato ad affrontare l'argomento relegarono l'infinito e il non definito nel novero delle cose da evitare: i Pitagorici, nella loro concezione numerico/mistica, associavano il concetto di incompiutezza, di imperfezione e di mancanza di forma al male, e nella coppia péras-apeiron, una delle dieci paia di contrari o principi costitutivi delle cose, il secondo termine designa appunto l'infinito, il non-essere, l'imperfezione.

I primi timidi tentativi di affrontare lo spinoso argomento sono stati portati avanti dalla scuola eleatica nel V Sec. AC: un tipo chiamato Zenone, allievo di Parmenide e lui stesso pitagorico, ideò una serie di 4 paradossi, che conosciamo attraverso gli scritti di Aristotele.
Zenone di Elea
A dire il vero queste storielle, più che ad indagare il mistero dell'infinito, servivano a mostrarne al lettore l’assurdità. In uno di questi aneddoti Zenone afferma che per andare da un punto A ad un punto B bisogna prima arrivare ad un punto C che si trova metà strada, ma prima ancora bisogna arrivare a D che è a metà tra A e C and so on. In altre parole assume che lo spazio sia indefinitamente divisibile e che una lunghezza finita contenga un numero infinito di punti, che non si possono coprire con un tempo finito. Conclusione: il movimento è impossibile.
Aristotele, qualche anno dopo, nella Fisica, prova a confutare il paradosso di Zenone. Distingue due tipi di infinito, quello in estensione (ad esempio gli infiniti numeri naturali) e quello in divisibilità (metà della metà della metà...). Secondo Aristotele è possibile uscire dall'impasse del secondo tipo considerando che anche il tempo è infinitamente divisibile, quindi un tempo finito è sufficiente a coprire una distanza finita. Mi pare una buona via d'uscita.
Ma poco dopo lo stesso Aristotele manifesta il suo horror infiniti quando afferma che i concetti indefiniti e privi di forma o di limite sono imperfetti. In una sua disquisizione sulle relazioni tra punti e retta, afferma che il punto è indivisibile e privo di dimensione, pertanto un insieme di punti non può in alcun modo formare una retta continua, al massimo può servire da confine per i segmenti. Un punto attaccato ad un punto, o attaccato a mille punti, continua a non avere dimensioni. L'unico modo per costruire un segmento è muovere un punto e tracciarne il movimento. Il concetto di densità infinita e di continuità, quello che poi sarà proprio dei numeri irrazionali, è anche in questo caso accuratamente evitato.
Gli Elementi di Euclide
Euclide, attorno al 300 AC, nei suoi Elementi (Libro IX, Proposizione XX) presenta una elegantissima dimostrazione (2) dell'esistenza di infiniti numeri primi, affrontando il concetto di infinito estensivo: c'è sempre un numero con determinate caratteristiche (in questo caso la primità) più grande di un numero dato. L'esempio più semplice, se non vi è bastata la nota a pié di pagina, è quello dei numeri naturali: se aggiungo uno ad un numero grande a piacere, trovo sempre un numero più grande.
In realtà  il nostro eroe non parla di infinito in maniera esplicita, e l'enunciato originale (o meglio una traduzione il più possibile vicina all'originale) si presenta più o meno come:

I numeri primi sono più di qualsiasi moltitudine assegnata di numeri primi.
 
D'altro canto lo stesso Euclide evita con attenzione di parlare di infinito anche quando imposta il suo famigerato quinto postulato, quello delle rette parallele, che suona più o meno così:

Se una retta, venendo a cadere tra due rette, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di due angoli retti, le due rette, prolungate a sufficienza, si incontrano dalla parte in cui sono i due angoli minori di due angoli retti.

Non si afferma che due rette parallele non si incontrano mai o si incontrano all'infinito (che è un po' la forma moderna ma imprecisa con la quale oggi conosciamo il quinto postulato), bensì che si incontrano dalla parte in cui la somma degli angoli interni (di incidenza con la retta secante) è minore di 180 gradi. Quindi, se la somma degli angoli interni è 180 gradi esatti, le rette non si incontreranno né da una parte, né dall'altra. E questa cosa Euclide la esprime senza mai nominare né tantomeno pensare all'infinito. Al posto di considerare due rette che si estendono all'infinito e dare la condizione di parallelismo, dà una condizione affinchè si incontrino a distanza finita.
un tipo fremente
Conclusione: niente infinito nell'antichità. O meglio, vaga percezione dell'esistenza del problema ma massima attenzione a non sfruguliare troppo il concetto, che potrebbe ribellarsi vomitando paradossi e sfighe varie.

Nella prossima puntata vedremo come l'idea verrà affrontata nei secoli successivi. Sono sicuro che non ve la perdereste per nulla al mondo. Già vi vedo tutti frementi.



Note:

1- Mi riferisco ovviamente al concetto che dell'infinito si era fatta la sparuta minoranza che aveva modo e tempo da dedicare al problema, perché sono alquanto sicuro che il 99% della popolazione avesse ben altri problemi e che dell'infinito non gli importasse una beneamata cippa.

2- Supponiamo ci sia solo un numero finito di primi (p1, p2, ..., pn). Ora consideriamo il numero ottenuto dalla moltiplicazione di tutti i numeri primi e aggiungiamo 1 (p1*p2*...*pn+1). Questo numero è primo, in quanto se lo dividiamo per ognuno dei numeri primi conosciuti (p1, p2, ..., pn) otteniamo sempre come resto 1. Ed è sicuramente più grande di pn. Quindi esistono infiniti numeri primi.
Pensate che questa cosa è stata immaginata 2400 anni fa. Non lo trovate anche voi semplicemente meraviglioso?