mercoledì 31 ottobre 2012

Carramba, che identità

Premessa: a me la matematica piace, sarà che mi dà un senso di incastro perfetto, di tutto-sotto-controllo, di se-ti-applichi-ce-la-puoi-fare, di assenza di trucchi, di pulizia, un po' come la corsa. E poi sia la matematica che la corsa sono attività minimaliste, bastano un paio di scarpe per l'una e neanche quelle per l'altra. Tuttavia non sono un runner professionista, e ancora meno un matematico; nel corso degli anni passati ne ho studiato qualche aspetto (della matematica, non della corsa) ma sempre da testi alla portata di tutti (a parte un paio di esami piuttosto generici all'università). Per il resto faccio un mestiere che consiste nell'analisi di aspetti quantitativi di fenomeni, quindi ha a che fare con i numeri, ma niente di più complesso delle quattro operazioni combinate in vario modo. Diciamo che sono un Pivello a cui piace leggere di matematica, parlare di matematica ai figli e cercare di incasellare le cose che vede in schemi quanto più possibile logico/matematici. Pertanto vi chiedo venia sin d'ora per quello che segue, che a un Vero Matematico (1) sembrerà probabilmente un discreto mucchio di ingenuità presentate con ottima improprietà di linguaggio. E questo tanto per essere a posto con la coscienza.

Vorrei riprendere un argomento che ho trattato tempo fa ma che non sono ancora riuscito a digerire, e che continuerò a riproporvi di tanto in tanto fino a quando qualcuno non sarà riuscito a spiegarlmelo in maniera a me comprensibile. Si tratta di una formuletta che mi ha sempre lasciato esterrefatto, che mette in relazione tra loro cinque elementi tra i basilari della matematica e che è conosciuta come l'Identità di Eulero. E' questa roba qui: 
e^{i \pi} + 1 = 0
Ha l'aspetto innocuo, riuscirebbe a leggerla persino un bimbo di quinta elementare, ma nasconde un segreto a me inaccessibile.
Provo innanzitutto a presentare i protagonisti della formula, i magnifici cinque:

1 è il primo numero naturale, l'elemento neutro della moltiplicazione, l'Unità carica di significati filosofici, credo esista da quando esiste un linguaggio. E' anche il titolo del primo disco dei Led Zeppelin. Insomma, mi pare importante.

0 è l'elemento neutro dell'addizione, l'unico numero ad essere né positivo né negativo e ad essere citato in ben tre assiomi su cinque nel sistema di Peano (ne ho parlato qui qualche tempo fa). Fu introdotto dai matematici indiani attorno al settimo secolo e neanche lui scherza in quanto a fama.

e è la costante conosciuta come numero di Nepero; si tratta della base della funzione esponenziale (scelta in modo che la derivata dell'esponenziale sia uguale alla esponenziale stessa) e, di conseguenza, base dei logaritmi naturali, funzione inversa dell'esponenziale. E' irrazionale, quindi non è esprimibile né come frazione né come numero decimale se non con infinite cifre dopo la virgola, è approssimabile a 2,71828 ed è una delle costanti più famose, fin da quando nel seicento il matematico scozzese Nepero la utilizzò per la prima volta nella sua opera sui logaritmi.

π è l'arcinoto rapporto tra una circonferenza e il suo diametro, probabilmente la costante più utilizzata in assoluto in matematica, è anch'essa irrazionale ed è pari a circa 3,14159. Era conosciuta sin dall'antichità, credo che i primi a utilizzarla, anche se non con la precisione odierna, siano stati i babilonesi 4 mila anni fa.

i è l'unità immaginaria, il numero complesso che elevato al quadrato dà come risultato -1. I numeri complessi furono introdotti a fatica tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo per trovare soluzioni ad equazioni tipo x2 + 1 = 0. Non è nemmeno esprimibile come numero decimale.

Cinque elementi che attraversano temporalmente secoli di storia, introdotti per rispondere alle esigenze più varie, che appartengono a branche completamente diverse del grande caleidoscopio di cultura che mettiamo sotto il nome di matematica, di primo acchitto si direbbe che non c'entrino nulla l'uno con l'altro.

E invece c'è questa identità semplice semplice, facile facile, talmente corta che potrebbe essere tatuata su un lobo, che le mette tutte insieme e che dice: prendi un numero reale che serve come base dei logaritmi, elevalo al rapporto tra la circonferenza e il suo diametro moltiplicato per l'unità immaginaria, poi aggiungici l'elemento neutro della moltiplicazione, vedrai che il tutto farà... ZERO!
E' un po' come se provassi a preparare il tiramisù seguendo la ricetta della zia, e quando metti insieme con fiducia il mascarpone e i Pavesini alla fine quello che ottieni è il vuoto assoluto. Come per magia tutto quello che metteva paura al Pivello (l'unità immaginaria che non si riesce ad immaginare, le infinite cifre dopo la virgola, l'elevamento a potenza di roba che non si capisce) svanisce nel nulla, annichilisce come in un rendez-vous di materia e antimateria, delle infinite cifre non rimane che il ricordo (2), l'unità immaginaria va a fare loro compagnia, e rimane lo zero. Questo per me è un mistero.
Sì, capisco che è dimostrabile, che l'identità è solo un caso particolare della più generale formula di Eulero

e^{ix} = \cos x + i\,\mathrm{sen}\,x

tutto giusto, ci mancherebbe, Eulero avrà fatto le cose per bene, ma questo non toglie nulla alla mia sorpresa. Non toglie nulla alla sensazione di Magia.

E' questo che mi affascina: nonostante io non lo comprenda, posso ragionevolmente credere che funzioni.

Vado a farmi un tatuaggio sul lobo.

  1. cfr Roberto Zanasi
  2. Se provate a elevare e alla π si ottiene 23,14058. C'è qualche Vero Matematico disposto a spiegare a un Pivello dova va a finire questa roba? 

martedì 23 ottobre 2012

Arma non convenzionale


Quando hai deciso di parcheggiare il motorino lì, proprio sul lato destro dello stretto passo carrabile con cui si accede al cortile interno dell'edificio di fronte alla scuola, pensando di sbrigartela in due minuti, giusto il tempo di accompagnare la quattrenne, eri consapevole che sarebbe bastato che un'altra auto avesse occupato il lato sinistro per rendere impossibile il transito. Ma hai subito soffocato le ansie pensando ok, se dovesse succedere non sarà stata colpa mia, ma della seconda auto, sarebbe lei a bloccare l'uscita, non io, anche se nel retrobottega del tuo cervello già si affacciava la certezza che lo sventurato che fosse rimasto bloccato da una morsa moto/auto, non conoscendo lo svolgersi cronologico degli eventi, avrebbe avuto diritto di prendersela con te come con il proprietario dell'auto, e già inconsapevolmente una manciata di enzimi nel tuo sistema linfatico si preparava a liberare al momento opportuno l'adrenalina necessaria alla singolar tenzone.

Ecco, sconfitto più
o meno da questo (fonte)
I tempi a scuola si dilungano oltre i due minuti previsti, sai com'è, la chiacchiera con un genitore, un bacio alla piccola, un altro dài ma questo è l'ultimo davvero, poi la fase flemmatica di avvicinamento al motorino, ti infili con calma il casco, controlli un sms, ovviamente non ricordi nulla dei passaggi mentali avvenuti durante la fase di parcheggio, fino a quando con la coda dell'occhio intercetti una grossa Toyota proprio sul lato sinistro del passo carrabile, il famigerato sito X che avrebbe chiuso il transito, e ritrovi un senso alle tue paure. Istintivamente giri lo sguardo verso l'ingresso del cortile interno, e vedi una vecchia Citroen con il muso affacciato come se volesse uscire, il motore spento ma al posto di guida un individuo che aspetta chissà da quanto e ti guarda calmo, un trentenne di colore, distinto e serafico quel tanto che basta a farti capire che non ci sarebbe stato il tipo di battaglia che immaginavi, che l'adrenalina poteva stare al suo posto (e meno male, sarebbe stato difficile trovare armonia tra lei, l'adrenalina, e la consapevolezza di essere in torto, forse torto condiviso e parziale ma sempre torto), un sorriso Giocondesco sulle sue labbra senza alcunché di provocatorio, solo la serenità di chi ha tempo per aspettare e lo fa brandendo la sua arma non convenzionale, quel sorriso inscalfibile di chi sa di aver già vinto.
E mentre ti profondi in scuse non richieste, concludendo la serie con un infantile Giuro che la prossima volta starò più attento, ti rendi conto di aver appena subito la tua più cocente sconfitta da traffico urbano, trafitto da un'arma non convenzionale.
Ma non erano proibite dalla Convenzione di Ginevra?

domenica 21 ottobre 2012

Carnevale dei libri di scienza #13 - La scienza nella letteratura

Vi segnalo il tredicesimo Carnevale dei libri di scienza, dedicato all'affascinate e trasversale tema della scienza nella letteratura. Il Carnevale è ospitato da BiblioBredaBlog, con meravigliosi e originali contributi dalle migliori firme dell'universo bloggers.
Unica caduta di stile degli organizzatori: annoverare tra i partecipanti un improbabile pennuto e il suo recente post su Flatlandia. Perdonateli, pare che lui li abbia supplicati.

Carnevale dei libri di scienza #13,
ospitato questo autunno da BiblioBredaBlog


martedì 16 ottobre 2012

L'uomo che cominciò a sospettare di avere una dimensione in meno

Una delle prime
edizioni di Flatland,
di Edwin Abbott Abbott
(due volte, controllate pure)
 
C'è in giro già da qualche tempo (più o meno centotrent'anni) un libretto che allarga la mente come un compressore fa con un palloncino, e che dovrebbe essere letto nelle scuole appena si comincia a parlare di geometria. Si tratta di Flatlandia, del reverendo Erwin Abbott, anno 1884, tradotto in italiano da Adelphi, un racconto fantastico che affronta in maniera divertente una delle colonne portanti della nostra percezione della realtà, il concetto di spazio e di dimensioni. Nella mia lunga quanto umile carriera di consumatore di testi scientifici divulgativi (moooolto divulgativi), spesso mi sono imbattuto in tentativi più o meno ortodossi e più o meno efficaci di spiegare il concetto di dimensioni oltre la terza, ma mai il mio cervello si era confrontato con immagini vivide e realistiche (anche se non so quanto rigorose, ma a me importa poco) come quelle con cui è stato ammaliato da questo volumetto di centocinquanta pagine. Mentre ero immerso nella lettura ad un tratto mi è sembrato talmente naturale poter, solo a volerlo, scartare di lato per traslare in una dimensione inconsueta e vedere l'intero universo da qualche nuovo tipo di alto e vedere i corpi all'interno, con le viscere, le ossa e tutto, dico sul serio.
Ma procediamo con ordine.

La prima parte del libro è dedicata alla descrizione di usanze, costumi e morale del popolo di Flatlandia, un mondo a due dimensioni, piatto come un foglio di carta o come la superfice calma di un lago, e alla conoscenza del protagonista, il signor Quadrato. Questa parte, oltre a costituire un divertente espediente per tentar di dare coerenza ad un mondo teorico, rappresenta una feroce critica alla società vittoriana, basata sul culto delle apparenze e sulla rigidità della piramide sociale; ma non è questo l'aspetto che ha consentito al libro di sopravvivere attraverso i secoli.
Nella seconda parte, quella davvero interessante e tuttora attualissima, si affronta di petto la parte geometrica e matematica e si introduce quello che sembra un metodo per districarsi con l'immaginazione attraverso quel percorso ad ostacoli che costituisce il passaggio tra mondi di diverse dimensioni. Il caro reverendo Abbott fa compiere al suo protagonista il Quadrato un viaggio iniziatico, come un Gulliver in paesi esotici, suggerendo quali sono gli elementi che mutano nell'incrementare le dimensioni una ad una.

E' così che ci imbattiamo nel mondo a zero dimensioni, Pointlandia, abitato da un solo essere, il Punto, che non ha neppure la percezione dell'Altro, dell'esterno; un punto solitario e monolitico nel suo spazio inesistente, l'Uno, l'Essere Assoluto, immobile e immutabile, che non conosce null'altro se non se stesso e il suo pensiero:
"Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può concepire altri fuor di se stesso: egli non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha cognizione nemmeno del numero Due; né ha un'idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto, essendo in realtà Niente. Eppure nota la sua soddisfazione totale, e traine questa lezione: che l'essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti, e che è meglio aspirare a qualcosa che essere ciecamente, e impotentemente, felici." 
Lasciamo il mondo zerodimensionale e le sue implicazioni etiche e filosofiche. Da Pointlandia è sufficiente un movimento in una qualsiasi direzione (se ce ne fossero di direzioni, in un mondo senza dimensioni, direte voi) che già si ottiene un mondo bidimensionale, e visto da qui il Punto che prima sembrava essere l'Unico Essere diventa uno tra i tanti, e abbiamo la possibilità di vederlo nella sua interezza. Se vivi a Linelandia, una specie di lungo segmentone o una retta infinita (a seconda della tua fiducia nella finitezza dell'universo), le cose si fanno più interessanti: esiste una seppur minima possibilità di movimento nel week end, e si ha l'occasione di percepire altri esseri, segmenti o punti. Certo che i limiti sono parecchi, basti pensare che il nostro vicino sarà sempre lo stesso, per impossiblità di sorpassarsi o di scavalcarsi, che non c'è mica lo spazio per farlo, e lo percepiremmo sempre e indistintamente come punto adimensionale. Un po' noioso ma già meglio del Bagaglino.

Una impenetrabile casa di Flatlandia

Ma anche qui basta un "semplice" scarto (non a destra né a sinistra, ma verso l'alto o il basso) per passare da un tunnel senza altezza ad un mondo bidimensionale, e cominciare a percepire quelli che erano segmenti sulla linea, e che da dentro la linea vedevi solo come punti, per quello che sono in realtà, nella loro completezza. A Flatlandia, il mondo a due dimensioni, si acquisce maggiore libertà di movimento, possibilità di scegliere chi frequentare e anche una diversa percezione dell'altro: di quello che prima era un segmento ora riesci a vedere non solo un punto, ma l'intera struttura prima non visibile, estremi e contenuto: le sue viscere, il suo intimo interno. C'è il problema non secondario che percepisci tutte le figure piane come segmenti. La percezione visiva funziona così: ruba sempre una dimensione a quelle disponibili, se hai uno spazio a una dimensione vedi solo punti adimensionali, se sei nello spazio a due, vedi gli oggetti ad una dimensione. A Flatlandia è impossibile vedere all'interno delle figure piane chiuse, cosa che per noi tridimensionali è un gioco da ragazzi (il pentagono che vedete qui a sinistra è una "impenetrabile" casa di Flatlandia).
Tuttavia si può sempre migliorare, anche dal mondo di Flatlandia basta uno scarto in alto, ma non verso il Nord, come ama dire l'amico Quadrato, per conquistare la terza dimensione, e cominciare a vivere in Spacelandia, il mondo a tre dimensioni a noi tanto familiare. Da qui la casa pentagonale di Flatlandia, prima nascosta alla vista, è a tua completa disposizione, e degli abitanti vedi le loro viscere, il loro cuore, in un solo onnisciente abbraccio visivo.
Per estensione anch'io, misero abitante di Spacelandia, abituato a vedere le figure come al cinema o in foto, altezza per larghezza (lasciamo perdere per ora i vantaggi della visione binoculare), ho immaginato di poter muovermi per di là (ma non a destra o sinistra, nè in alto o in basso, nè avanti o indietro...) e di riuscire ad abbracciare con lo sguardo le viscere dei miei compagni a tre dimensioni, l'interno delle case, il cuore della Terra, ed essere finalmente e totalmente conscio del mio mondo.

Provo a schematizzare il percorso:
Dimensioni del mondo
Dimensioni percepite con la vista
Figure di cui vedo contemporaneamente bordi e interno
0
nulla
nulla
1
0
punti
2
1
linee
3
2
figure piane
4
3
solidi
x
x-1
ipersolidi

Alla fine il metodo è garantito, e consiste "semplicemente" nello spostarsi, scartare di lato, saltare verso giù, insomma una sorta di movimento in una direzione inconsueta e sconosciuta. E ad ogni movimento si guadagna una dimensione, ad ogni dimensione guadagnata la vita percepita nei mondi di partenza aumenta in maniera esponenziale la sua varietà, la qualità, il senso di valore che la stessa assume. E quello che ti sembrava prima importante forse non lo è più. Ad esempio non è importante indossare biancheria intima.
Stasera ci provo, speriamo la cervicale.

giovedì 11 ottobre 2012

Crescita asimmetrica

Genitori e figli: in una situazione normale ci si aspetta una crescita equilibrata, i figli che imparano qualcosa sul mondo esterno alla famiglia, sul posto che occupano, sulle aspettative che cominciano a nutrire, i genitori dal loro canto che si migliorano su come affrontare la responsabilità dell’educatore, come capire le esigenze dei nuovi piccoli umani, come venire incontro ai loro problemi, alle loro insicurezze. Poi però ci sono casi in cui si coglie all'istante lo stridore e l'asimmetria tra le evoluzioni dei due gruppi. 
Tipo l'altro giorno a Termini, una signora diceva al figlio, porgendogli una felpa, “piccolo, mettiti qualcosa addosso, stai tremando”, scambiando per brividi di freddo una crisi d’astinenza del ventenne.

lunedì 8 ottobre 2012

La verità in dodici volumi


I dodici volumi di "lezioni di Xologia"

È che quando ti trovi a dover combattere con una qualsiasi disfunzione del tuo apparato locomotore, del guscio che i tuoi geni hanno assemblato durante i nove mesi di gestazione e manutenuto durante i successivi X anni di crescita, e per il quale hanno acquisito informazioni nel corso di milioni di anni di evoluzione, quando questo guscio scricchiola, e devi confrontarti con una malattia, un dolore, un intorpidimento, un impedimento in genere, l'unico desiderio al quale aneli è trovare un esperto che con totale empatia possa comprendere a fondo i tuoi sintomi, elaborare con certezza la diagnosi e prescrivere in assoluta sicurezza le efficaci terapie. Decidi pertanto di rivolgerti ad uno che ne sa parecchio, e per un suo consulto sei disposto a investire (non a spendere, sul proprio corpo si investe) chili di euro, senza turbe nè analisi di sostenibilità finanziaria. Ed è proprio su questa tua debolezza genetica che si basa l'intera industria medica e paramedica (includendo in essa i professionisti delle manipolazioni, delle nuove arti diagnostiche, delle medicine alternative, delle tecniche riabilitative, delle specialità orientali, i natu-fito-omeo-cromo-osteo-chiro specialisti e robe varie). E ognuno di loro (medici, paramedici e robe varie, per brevità MPRV) sa che il suo mestiere è campare di questa industria ed è su questo che si gioca tutto. E per battere la concorrenza deve presentare la sua specialità come l'unica risolutiva, e le altre come mondezza. Quest'ultima parte gli viene piuttosto facile, considerato che lo specialista MPRV ci crede davvero in quello che fa, e non perché sappia tutto della sua specialità, ma perché quella è l'unica cosa della quale sa qualcosa.

Come si difende il paziente paziente (una volta come aggettivo e una come sostantivo)?

Regola numero uno: deve smetterla di credere ai santoni. La migliore tecnica mentale per raggiungere lo scopo è inquadrare il MPRV nella categoria di impiegati della salute, questo già aiuta a togliere loro quell'aura di infallibilità ed onniscienza; capire che ognuno dei MPRV, anche il professorone primario acclamato dalla critica, la mattina si alza e, dopo aver fatto la cacca come tutti, si guarda allo specchio e dice "che palle, anche oggi devo visitare tre (o quattro, o cinque, a seconda della sua fama) tizi malaticci e fargli credere che posso risolvere il loro problema", e i più saggi e oculati aggiungono "e pensare che non ci capisco una mazza, ma dovrò pur mangiare no?". L'importante è comprendere che fare il MPRV è un mestiere come un altro, ben lungi dall'essere una vocazione, tantomeno un dono da mettere a disposizione dell'umanità. E' gente che tira un po' ad indovinare. E per farlo ha a disposizione solo la tecnica alla quale si è dedicato in mesi di duro studio e in anni di duri incassi, una tra le tante tecniche esistenti, nient'altro, con le sue mezze verità e i quarti di certezze. Alla prossima visita provate a distogliere l'attenzione dal viso rassicurante e saccente del MPRV di turno e a guardarvi intorno: nel suo studio di specialista in Xologia, proprio sulla libreria alle sue spalle, troverete in perfetta solitudine ed isolamento i dodici volumi di "lezioni di Xologia", la sua unica verità, la spiegazione buona per tutte le stagioni.

Regola numero due: deve fare da solo. La maniera migliore che fino ad oggi ho scovato per affrontare una disfunzione del mio corpo coincide più o meno con questo processo: A) cerco di capire il problema al meglio, utilizzando fonti che non implichino un contatto diretto con un MPRV (va bene internet, un amico che ci è passato, in extremis anche una chiacchiera al bar); B) raccolgo i dati sui metodi di risoluzione praticati e sugli esiti; C) sperimento su me stesso. Fare da soli insomma, in modo che, quando ci si confronterà con un MPRV (passo purtroppo a volte necessario) 1: sai di che si parla e 2: provi a non farti prendere troppo per il culo. Per lo meno cercare di capirci qualcosa aiuta a mettere insieme le mille mezze verità offerte dagli specialisti e a tenere il cervello in esercizio.

Dietro a queste regole del faidate in salute c'è un'unica certezza: la medicina, allopatica o alternativa, ufficiale o orientale, manuale o teorica, non è una scienza, al massimo è una pratica empirica. Va per tentativi. Stando così le cose, li faccio io, i tentativi.

E poi quando finalmente, e sopra la tua pelle, capisci tutto questo e raggiungi un nuovo stato di equilibrio psicofisico che ti porta a sovvertire il consueto ordine di priorità, e riesci finalmente a dirti che in fondo ci sono altre cose nella vita oltre alla salute, allora succede che torni a casa, accendi il modem, e ti accorgi che IOS 6 non è compatibile con il tuo Ipad di prima generazione.
E allora sì che le palle ti girano.

giovedì 4 ottobre 2012

Infinite return (and a portrait of the artist as a young man)


Alla fine ho seguito il consiglio degli esperti e di qualche amico che con me sta dividendo questa fase di passione wallaciana: dopo la conclusione di Infinite Jest (IJ) e dopo un'incursione lampo in qualche racconto e in Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai Più, ho intrapreso la poco rischiosa e ben battuta via cronologica, e ho azzannato La Scopa Del Sistema (LSDS). Aiutato non poco dal nuovo e-book reader che mi permette di leggere un po' dovunque, ho sbrigato la pratica in un paio di settimane.
Togliamoci subito ogni dubbio: LSDS non è IJ. Non ne ha la complessa organicità, il fascino assuefacente, gli indimenticabili e adorabili personaggi, soprattutto non ti avvinghia nei suoi legacci. Però ha in embrione alcuni dei tratti che poi verranno sviluppati in IJ e in altri scritti, e già basterebbe questo a farne un libro che vale la pena leggere.
C'è la volontà di giocare sugli aspetti del metaromanzo: in parecchi punti i personaggi sembrano pronti ad accorgersi della loro natura di personaggi, a prenderne coscienza e a agire di conseguenza, forse ribellandosi al loro autore, e pare che parecchie delle loro turbe psichiche siano dovute proprio a questa consapevolezza negli strati più emergenti del subconscio.
C'è la non-linearità (ma del resto nemmeno i racconti di venti pagine sono lineari in DFW): LSDS è un libro complesso, polimorfico, a tratti anche volutamente confuso, di quella confusione che a ben studiarla alla fine un ordine, una linea conduttrice, pensi di poterceli trovare. I personaggi non sembrano mai ben identificabili, non è semplice nemmeno capire nei dialoghi chi dice cosa, i nomi si ripetono e spesso si confondono, quelli a cui pensavi di poterti affezionare si trasformano in inaffidabili squilibrati (Rick Vigorous su tutti), altri che immagini abbiano un ruolo fondamentale (se non altro perchè ti sembrano alter ego di DFW) spariscono dopo poche pagine (come La Vache, l'Anticristo, nel quale trovo molti tratti in comune con Pemulis).
Ci sono passaggi molto godibili, come il capitolo su La Vache o i dialoghi tra i protagonisti e lo psicoterapeuta Dr. Jay.
Insomma, un bel libro, ma niente di memorabile. Beh, ma Wallace aveva ventitre anni, direte voi; ma a me, lettore e non biografo, compete al massimo un giudizio sul libro in se stesso, non un esame di maturità dell'autore.

A proposito, l'ultima parola del romanzo, quella mancante:  mi dicono che sia facile indovinarla, ma io non ci sono riuscito. Qualcuno di voi mi aiuta?

PS (lungo): Vabbè, adesso tanto per cambiare parliamo un po' di IJ, che proprio non riesce a lasciarmi in pace. Butto lì un'ipotesi per la quale ho provato cercare conferme in rete ma senza troppi esiti.

Estasi di santa Teresa d'Avila
Gian Lorenzo Bernini
Chiesa Santa Maria del Vittoria a Roma
(foto e didascalia finalizzate unicamente
ad attirare ricerche da Google immagini) 

Ipotesi: David Foster Wallace ha qualcosa a che fare con l'Italia. Non so bene cosa, ma mi pare che dissemini i suoi romanzi e racconti di brevi riferimenti al nostro paese, alle nostre città e alla loro storia.
Fatti a conferma dell'ipotesi (elenco qui solo quelli che ho trovato in IJ, ma ce ne sono in altri scritti):

pag 33, e altre successive, viene nominato il dott. ZEGARELLI, dentista di Hal, di chiare origini italiane.

pag 281, e altre successive, viene descritta l'Estasi di Santa Teresa, del Bernini, a Santa Maria dellaVittoria, a Roma
pag 390, l'Italia invade l'Albania durante la partita di Eschaton
pag. 301, si accenna all'Adriatico e alle sue coste come posto molto tranquillo
pag 793, riferimento al pubblico italiano come divoratore di miti (tennistici?)
pag 809, si accenna ad una tipica (?) espressione degli italiani, il concetto del senza errori
pag 970, Hal immagina di camminare per la via Appia.
pag 1026, si prendono a paragone i carri armati di Mussolini che passavano sopra gli eserciti etiopici armati di lance
pag 1235 nota 209, Wayne scivola sulla fine terra di Roma (si fa riferimento agli internazionali di tennis di Roma).
inoltre sono sicuro che in un punto nel libro, purtroppo non ho segnato quale, si accenna alle origini umbre di James Incandenza.

Questo è quanto ho raccolto, e mi pare decisamente più di quanto un americano medio di solito infila in un libro riguardo ad un paese europeo.
Che ne dite?
Conferme? Smentite?