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martedì 21 marzo 2017

Adotta un cassonetto

La premessa
Roma sta raggiungendo livelli di degrado mai toccati prima, questo è sotto gli occhi dei suoi cittadini. Il traffico è sempre caotico e arrogante, il trasporto pubblico alterna inefficienze organizzative e logistiche a giornate di sciopero spesso strumentali, le strade vengono riparate solo in casi estremi, e su tutto regna la mancanza di senso civico del romano medio.

Il problema
Monnezza vicino a cassonetti vuoti
Ma uno degli esempi più visibili (e annusabili) del degrado cittadino è la situazione della raccolta dei rifiuti. Impossibile non notare l'enorme quantità di monnezza abbandonata nelle strade: buste di plastica tra deiezioni canine e bottiglie vuote, cartoni della pizza su panchine pubbliche, bucce di frutta che strabordano dai pochi cestini. Pare impossibile fare trenta metri a piedi senza imbattersi in cassonetti circondati da informi sacchi di immondizia, imballaggi, mobili, materassi, vecchi elettrodomestici.
Un’aggravante, dovuta allo scarso senso civico di cui sopra, è che spesso l’utente non prova nemmeno ad aprire il coperchio del cassonetto per depositare dentro la spazzatura, ma la lascia lì accanto: sai com'è, il coperchio è pesante e c’è il rischio di sporcarsi, e poi non dimentichiamo che quei pantaloni che butto potrebbero servire a qualcuno...
Spesso ci si trova nell’assurdo stato di fatto di cassonetti semivuoti e immondizia tutt'attorno.
Le cose sono peggiorate da quando la raccolta è passata da motorizzata a automatica. Mi spiego: prima, nell'era dei cassonetti di plastica neri, l’AMA passava con un camion che aveva a bordo il conducente e due netturbini sul retro. I due operai accostavano a mano il cassonetto al camion che lo sollevava e svuotava al suo interno, poi raccoglievano i sacchi e l'immondizia varia che rimaneva a terra buttandola sul mezzo. Il risultato era che, al suo passaggio, il camion della nettezza urbana si lasciava dietro un'accettabile situazione di relativo ordine e pulizia.
Da quando ci sono quei grandi cassonetti metallici con i colori della raccolta differenziata, le cose funzionano diversamente. Ora passa questo enorme camion con il solo conducente a bordo, si affianca all'altrettanto enorme cassonetto, lo solleva con bracci meccanici e lo ingoia, noncurante di cosa rimane a terra. Nessuno raccoglie più il sacco che non entrava, la busta caduta per sbadataggine, la bottiglia rotolata fuori.
Il risultato è che il camion al suo passaggio si lascia dietro una scia di cassonetti vuoti e spazzatura sparsa per strada e sui marciapiedi, che rimarrà li finché, una volta al mese, se ti va di lusso, passeranno i netturbini con mezzi più piccoli a fare un po' di pulizia.

La soluzione
Chiarisco il mio pensiero: la soluzione istituzionale sarebbe passare alla raccolta porta a porta, unica scelta degna di una città europea. Ma io non faccio parte di chi decide, al massimo posso col mio voto indirizzare alcune politiche, ma spesso non funziona nemmeno quello.

Però posso adottare un cassonetto.

Certo, capisco benissimo che non spetta al cittadino pulire le strade, e che paghiamo un servizio apposta, e che vogliamo che funzioni. Ma non riesco a star lì con le mani in mano a guardare il mio quartiere ridotto come la casa dei sette nani prima che arrivasse Biancaneve.
Cassonetto pieno accanto a uno vuoto
Allora scelgo un cassonetto comodo, uno che mi farebbe piacere vedere pulito tutti i giorni, possibilmente sotto casa. Se poi sono due o tre, meglio ancora.
La mattina quando esco di casa gli do un'occhiata, se ci sono buste appoggiate fuori semplicemente le metto dentro, se un sacchetto è appoggiato sul bordo e rischia di cadere, lo spingo all'interno, spazio se ne trova quasi sempre. A volte si vedono coppie di cassonetti, uno con il coperchio alzato e strapieno, l'altro semivuoto e col coperchio chiuso. Chi passava ha preferito lasciare la busta a terra piuttosto che rischiare di sporcarsi o faticare per alzare il coperchio. Allora il papà adottivo non fa altro che prendere la busta, alzare il coperchio e buttarla dentro.

In base ai dati in mio possesso stimo che ci siano circa 100.000 cassonetti di varia natura a Roma. Se il 5% dei romani ne adottasse uno, ogni cassonetto avrebbe un paio di genitori adottivi che se ne prendono cura.
Certo, il povero genitore nulla potrà fare se la monnezza straborda da cassonetti strapieni, se non sperare nel pronto intervento dell'AMA, ma vi assicuro che in base alla mia esperienza questo accade di rado. Più spesso si tratta di incuria dei cittadini unita a inefficienza del sistema di raccolta. Cose alle quali noi genitori adottivi possiamo porre argine.

lunedì 23 novembre 2015

OdG

Alcuni potenziali argomenti da utilizzare per l'Ordine del Giorno delle riunioni di un ipotetico club che, se esistesse, vorrei mi accettasse tra i suoi soci:

  1. Esistono davvero i sapori di una volta?
  2. Meglio un sigaro ammezzato o uno lungo e poi lo tagli? Aspetti economici e di costume.
  3. Esiste una relazione causa/effetto nella realtà o è tutta una questione di culo?
  4. Florenzi aveva o no il diritto di salutare la nonna?
  5. E' vero che usate solo il 10% del vostro cervello?
  6. Il disco in vinile tra desueto e in voga.
  7. Tutto questo ha un senso? Se sì, quale? Se no, e allora?
  8. Spiritualità ed invecchiamento: il fardello del peccato originale nell'animo femminile.
  9. Codice di comportamento da tenere quando sei in occasioni conviviali con gente di cui non ti fotte una ceppa.
  10. Il rapporto padre figlio può essere decente a lungo termine o è inevitabilmente destinato a sfumare nell'incomunicabilità a partire dalla pubertà fino al totale indifferenza dell'adolescenza?
  11. Superiorità motivazionale dell'immaginario islamico: paradiso di Maometto vs i due coglioni del Paradiso dantesco.
  12. Fare il gigolò va ricompreso tra i mestieri usuranti?
  13. Come vi definireste con un solo aggettivo?
  14. Come mai il pesce grosso mangia il pesce piccolo e invece l'uccello grosso non mangia l'uccello piccolo?
  15. Perché creare una categoria di "avverbi presentativi" quando esiste solo "ecco"?
  16. Domanda a piacere.
  17. Netflix: l'ennesima inculata o la rivoluzione dell'Intrattenimento?
  18. Sedie a rotelle: non sarebbe più efficiente tirare le ruote invece di spingerle?
  19. Ma davvero vi considerate coraggiosi?
  20. Ricordate ancora l'appello della vostra classe di prima elementare?
  21. Qual è il numero di elementi soprannaturali accettabili in un prodotto di fiction?
  22. Meglio rileggere un gran libro per la terza volta o leggerne uno mediocre per la prima?
  23. Classifica delle gnocche nordeuropee per paese di provenienza: esperienze a confronto.
  24. Come sopravvivere al giorno d'oggi senza filtri CO2.
  25. In caso di amputazione delle gambe, le pulsazioni cardiache si modificano? E come?
  26. Si può davvero morire soffocati dal proprio vomito o prevale l'istinto di sopravvivenza e ti giri per sputare?
  27. Gli strass nella pittura muraria come rappresentazione del super-ego.
La sede dell'ipotetico club

lunedì 3 novembre 2014

Modesto ma veemente assalto alla casta

Mi sembra che oggi siano i giornalisti quelli che decretano quale sia il bene e quale il male.

Sono loro che giudicano il metodo Stamina sostituendosi ad autorità sanitarie e a sperimentazioni scientifiche.
Sono loro che decidono se un alimento è sano, se il biologico avrà successo, se una dieta è bilanciata; sono sempre loro che giudicano la qualità di vita di un Paese, se un'università è d'élite, se il clima sta cambiando, se i ghiacciai si sciolgono per davvero o se una democrazia è in pericolo.

Trasmissioni come "le Iene" possono far chiudere esercizi commerciali e mettere sotto inchiesta enti pubblici con servizi da poche decine di minuti e quattro interviste. 
Ogni settimana un'inchiesta di Report annienta un diverso settore: pochi giorni fa è toccato alla pizza, poi al caffè, ieri ai piumini. E il bello è che lo fa con contenuti a dir poco opinabili ma con clamore da Watergate. Tipo: il prof. Perin sostiene che la pizza bruciata può far male (dov'è la novità? anche svegliarsi la mattina fa male, aumenta l'entropia e ti avvicina al giorno della morte); oppure: alcuni pizzaioli disonesti condiscono la pizza con olio di girasole al posto di quello d'oliva (e 'sti cazzi? manco fosse cianuro).
... e chi se ne frega...


La ricerca spasmodica di complotti e catastrofi si è impossessata del telespettatore e i giornalisti da inchiesta ci sguazzano come pesci rossi nell'acqua di rubinetto: sono loro, i giornalisti d'assalto, l'ultima frontiera del potere, l'ennesima casta, i nuovi intoccabili. Sono gli unici che possono parlare di tutto pur dichiarandosi sfacciatamente non esperti, che possono attaccare impunemente chiunque, fottendosene di regole che loro stessi si vantavano di maneggiare alla perfezione, tipo il diritto di replica o gli elementi basilari del contraddittorio. Non devono rendere conto a nessuno se non all'audience e alla risonanza mediatica delle loro dichiarazioni. Possono scegliere, tagliare, montare interviste e inserire immagini in modo arbitrario, lanciando messaggi ben precisi senza alcun tipo di verifica o controllo se non quello che si fanno da soli. E se si sbagliano, beh, al massimo una piccola e discreta rettifica in fondo al programma successivo e tutto è sistemato. 

A quando una puntata di Report autoreferenziale, incentrata sul potere che i giornalisti stessi si sono ritrovati per le mani e su come questo viene usato?

mercoledì 29 gennaio 2014

La frontiera del tempo

Dialogo sul tempo in un unico atto con titolo un po' paraculo

Personaggi
  • Conte P, intellettuale dalle nobili origini e dai modi aristocratici, con il vezzo di interessarsi un po' di tutto ma di nulla a fondo;
  • Tacchino, personaggio strumentale alla narrazione, più che altro utilizzato per porgere le battute al protagonista; a tempo perso tiene un blog che, considerato il numero di accessi, potrebbe benissimo essere sostituito da un paio di email al mese destinate a pochi intimi;
  • una giovane cameriera dai tratti piacenti.
Scena

Roma, interno, lounge bar fighetto, due comode poltrone in cuoio nero, un tavolino basso con due snifter colmi per un quarto di un liquido ambrato. Il locale è cablato modernamente in modo che basta sfiorare un pulsante per ottenere il pressoché immediato sopraggiungere della giovane cameriera.

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Tacchino: sa cosa mi piace di questo posto, Conte? Che il Lagavulin te lo servono abbondante e nel bicchiere adatto, bello panciuto. Lei dice che per risparmiare ce lo portano annacquato?

Conte P: caro Tacchino, non amo fare questo tipo di illazioni se non supportandole con prove incontrovertibili o per lo meno con solidi indizi. Io vengo qui per fare due chiacchiere, non per immettere in corpo liquidi dal miglior rapporto tasso_alcolico/prezzo disponibile sul mercato, come a volte dà l'impressione di fare lei. A proposito, non è già al quarto? Dovrebbe andarci piano. Piuttosto vorrei portare alla sua attenzione una considerazione che facevo tra me e me giusto stamane, mentre mi recavo alle scuderie accompagnato dal mio fido segugio Piero e che, nonostante siano passate ore, continua a frullarmi in testa.

Tacchino: spari pure, sono tutt'orecchi. Intanto io schiaccio questo bottone e chiamo quello spettacolo di cameriera, ma l'ha vista? Io glielo darei volentieri un colpo.

Conte P: l'altro giorno ho assistito a un seminario del prof. Rovelli in cui l'esimio affermava che, in base ai suoi studi, le equazioni della meccanica possono benissimo essere scritte senza tener conto della variabile tempo. Ciò significa che la fisica di base funziona comunque, anche ipotizzando la non esistenza del tempo. L'unico campo in cui pare non si possa prescindere dal concetto di tempo è la termodinamica: i processi entropici hanno una direzione correlata al tempo. Rovelli sostiene anzi che il tempo sia, in un certo senso, un'illusione che deriva proprio dai processi entropici.

Tacchino: oh, beh, in effetti, non saprei... ah, salve signorina, non avete qualche stuzzichino? 

Cameriera: Se vuole le porto un cestino di olive, sono ottime.

Tacchino: olive? Ma sono gratis? Altrimenti non se ne fa nulla.

Cameriera (allontanandosi un po' disgustata): non si preoccupi, offre la casa.

Tacchino: carina, vero? Ma com'è che non toglieva gli occhi da lei, conte?

Conte P forse perché mentre le chiedeva le olive non faceva che fissarle le tette. Dovrebbe essere più elegante nei rapporti con il gentil sesso, a volte mi chiedo come faccia io ad accompagnarmi a lei, pur se in queste rare occasioni. Le dicevo, sullo spunto della teoria di Rovelli ho provato a fare delle considerazioni. In un certo senso il tempo è intimamente connesso alla visione umana della realtà. Se ci pensa bene, tutte le testimonianze del passato sono solo stati del presente: rovine, fossili, lettere, storie, cosa sono se non forme attuali della materia? Persino quella che consideriamo la prova più inconfutabile del passato, ossia la sensazione che sembra collegare un agglomerato di cellule del presente, il "me ora", a un altro agglomerato più o meno simile del passato, il "me ieri", alla fine dei conti non è altro che un insieme attuale delle configurazioni stabili dei miei neuroni: la mia memoria. L'unica vera testimone del passato diventa uno stato presente, come del resto lo sono altre configurazioni neurali che rappresentano l'unica prova del futuro: le aspettative, le previsioni, le proiezioni mentali; tutta questa roba è solo presente, uno stato della materia, una forma dell'adesso.

Tacchino: sì, ma io nel frattempo divento vecchio e una come quella me la scordo.

Conte P ecco, l'invecchiamento a cui, nella sua semplicità, lei accenna, caro Tacchino, il fatto che la materia abbia stati successivamente sempre più disordinati, è l'unico processo ancora indissolubilmente legato al tempo di cui abbiamo bisogno. Probabilmente è proprio il significato ultimo del tempo.

Tacchino: boh, io mica ho capito bene questa storia. Me lo fa qualche esempio? A proposito, quel whisky, se non lo beve lei, quasi quasi...

Conte P prenda pure, ma non starà esagerando? Ormai è quasi sdraiato su quella poltrona. Allora, dicevo, il concetto non è di certo nuovo, sicuramente anche lei, che legge solo fumetti, si sarà imbattuto in qualche massima del tipo "il passato esiste solo nella memoria, il futuro nell'immaginazione" oppure "il passato non è più, il futuro non è ancora, esiste solo il presente". Beh, diciamo che queste massime forse vanno nella giusta direzione. D'altronde gli animali fanno proprio questo: vivono esclusivamente nel presente. Voleva un esempio per la sua mente elementare? Quando, uscendo di casa, lascio Piero, il mio segugio, da solo, comincia a guaire inconsolabilmente come se non dovesse più vedermi, anche se ormai dovrebbe essere abituato al mio rientro dopo un'ora al massimo. E al mio ritorno mi dedica ogni giorno la stessa accoglienza che mi ha riservato lo scorso inverno al mio ritorno dal Borneo, un viaggio durato più di tre mesi. Per un cane un'ora o tre mesi è uguale: non ha il senso del tempo. Solo gli umani mostrano di avere questo concetto nel loro software. E nemmeno tutti: i bambini, fino a quando non assimilano il meme del tempo dai genitori, ragionano esattamente come gli animali. E' per questo che mal sopportano anche il minimo dolore: lo vivono come se dovesse durare per l'eternità, come se fosse diventato il loro stato stabile. Non hanno l'idea di evoluzione, di cambiamento.
Certo, c'è da dire che il meme tempo è stato il motore della nostra evoluzione, dello sviluppo della nostra cultura: senza l'esperienza del passato e senza la pianificazione del futuro noi non staremmo qui a sorseggiare whisky scozzese, saremmo arrivati al massimo allo stadio di cacciatori/raccoglitori. Ma stasera parliamo di realtà fisica, non di cultura.

Tacchino: E meno male, che io con la cultura non ci ho mai fatto pace. Ma lo sa che sulla storia dei bambini forse ci ha preso? Mia figlia piccola quando mi chiede quanto manca a Natale, che le risponda due giorni o sei mesi reagisce sempre allo stesso modo: s'imbroncia e dice: "noooo, è troppo tempo". 

Conte P esatto. Ha mai provato a spiegare a un bambino piccolo il significato di domani? Facilmente si confonderà con la storia che il domani di ieri è l'oggi di oggi.
Vabbé, si è fatto tardi, io andrei, vuole che l'accompagni? Non mi pare troppo in forma.

Tacchino: Nooooo, tranquillo, sono a posto, se solo mi dà una mano a trovare la macchina... a proposito, ricorda di che colore è?

Conte P dovrebbe riconoscerla dalla ammaccature, se non erro ha ancora lo stesso catorcio a bordo del quale ho avuto il piacere di conoscerla oltre dieci anni fa. Solo una raccomandazione prima di accomiatarci: la prego di ritenere le vaghe chiacchiere di stasera un semplice scambio di opinioni tra vecchi amici, non si sogni neppure di farne cenno su quel suo blogghetto, ne andrebbe della mia reputazione di uomo con i piedi per terra.

Tacchino: Ovvio, sarò una tomba. Burp.

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Disclaimer:
i personaggi citati e le vicende qui narrate, incluso questo disclaimer, sono di fantasia, e non hanno alcun legame con personaggi esistenti o vicende realmente accadute.

martedì 30 luglio 2013

Il concerto rock come paradigma di una serie di riflessioni sull'Intrattenimento, tipo:


Che c’è un Qualcosa che induce ottantamila persone a pagare una cifra considerevole per radunarsi in un luogo delimitato soffocando il naturale istinto alla conservazione di uno spazio vitale attorno al proprio corpo e superando le immaginabili difficoltà di raggiungere il suddetto luogo, quelle del parcheggio e quelle di trovare il tempo da investire nell'attività; che quel Qualcosa non può essere semplicemente il desiderio di vedere il proprio gruppo rock preferito che suona i pezzi che sappiamo a memoria per averli ascoltati migliaia di volte (per questo basterebbe un buon video ad alta definizione); e che quel Qualcosa può assai di più essere spiegato dagli stessi meccanismi che inducono una folla in un rito religioso di massa o dal bisogno di appartenenza ad un gruppo primario di identificazione, e che la sensazione per cui si è disposti a pagare è quella del Sono-Qui-Insieme-A-Migliaia-Di-Altre-Persone-Con-La-Mia-Stessa-Passione.

Un ipotetico concerto allo Stadio Olimpico
Che si può ipotizzare l'esistenza e tentare la misurazione di un parametro G, "valore di attrazione Gravitazionale del palco", definito come capacità dell'artista e/o dello spettacolo in corso di attirare verso di sé gli astanti (intesi come spettatori liberi di muoversi su un piano bidimensionale orizzontale A senza vincoli di posti numerati, barriere, security men: il prato di uno stadio durante un concerto rappresenta bene il modello). G sarà variabile tra 0 e 1, intendendo zero come attrazione nulla, ossia spettatori che vagano liberi nel piano A senza particolari focus di addensamento, se non minimi e temporanei assembramenti attorno a chioschetti di birra e altri beni di prima necessità (un kebabbaro ha per esempio un buon valore addensante anche se presenta un limite dovuto al trade-off tra fame e fila da fare per ottenere il panino); se siete ad un concerto con G=0 chiedetevi pure perché ci siete andati. G sarà invece uguale al valore massimo (uno) se ognuno dei presenti è indotto a spostare il proprio corpo quanto più possibile in direzione del palco, avendo come unico limite il corpo degli altri spettatori e il principio di impenetrabilità (non si accettano battutine a doppio senso sulla paventata promiscuità sessuale dei concerti rock).
Normalmente i valori di G durante un concerto di primaria importanza si attestano intorno ad un discreto 0.8, che indica un affastellarsi di corpi in prossimità del palco (calca pressante dovuta alla maggiore vicinanza con l’origine della forza misurata con G), e a una progressiva diminuzione della densità man mano che si procede verso metà campo, fino ad assistere ad uno sfilacciamento delle masse in prossimità dei limiti del prato opposti al palco, fenomeno che potrebbe dare vita a spazi relativamente ampi dove si può addirittura trovare il modo di stare sdraiati su una coperta da picnic.

Che, sempre durante un ipotetico concerto in uno stadio, è possibile percepire ciò che accade sul palco senza guardarlo direttamente, ma limitandosi ad osservare gli schermi degli smartphone che riprendono la scena come se fossero ognuno un pixel di uno schermo più grande, avendo come unica accortezza quella di collocarsi in posizione sufficientemente elevata da permettere di abbracciare un buon numero di devices. L’effetto di fedele riproduzione dello spettacolo è tanto migliore quanto più è forte il contrasto cromatico della scena riprodotta: se sul palco vengono proiettate immagini a forte contrasto -immaginiamo uno sfondo azzurro con un muro di mattoni rossi che va formandosi pian piano- lo spettatore sopraelevato che guarda gli schermi degli iphones e similia ne osserverà alcuni con lo schermo principalmente azzurro (quelli che riprendono soprattutto porzioni azzurre del palco), altri con lo schermo predominantemente rosso (quelli che stanno inquadrando zone del palco ad elevata densità di mattoni). L’effetto sarà una composizione di schermi azzurri e rossi che rifletterà statisticamente la densità degli stessi colori sul palco. Qualcuno, in preda a sostanze psicotrope, potrebbe azzardare l’ipotesi che, avendo a disposizione un numero infinito di smartphone di cui sbirciare gli schermi, l’immagine osservata da lontano potrebbe riprodurre in dettaglio qualsiasi scena mostrata sul palco, persino il chitarrista che fa un assolo. Quest’ipotesi però, a mio parere, per funzionare avrebbe bisogno non solo di infiniti telefonini, ma anche di un tempo infinito di osservazione, per far sì che la scena riprodotta dall’insieme dei pixel (gli infiniti telefoni) abbia modo di riprodurre casualmente l’esatta realtà del palco.

venerdì 21 giugno 2013

Effetto treno

Non so quanti di voi, in determinate fasi della vita, per vicissitudini causate da difficoltà logistiche, da verifiche sull'impatto ecologico delle proprie scelte, da calcoli dei costi connessi agli spostamenti o, semplicemente, perché poco avvezzi alla guida di mezzi di locomozione privati, abbiano avuto occasione di muoversi con gli autobus urbani.
Quelli tra di voi che lo hanno fatto, probabilmente si saranno accorti che alle fermate i mezzi pubblici su gomma sovente sopraggiungono in serie, nel senso che per un bel po' non ne passa nessuno e poi ne passano due o tre uno dietro l'altro. Come le onde oceaniche. Ai fini dell'analisi che segue, permettetemi di chiamare questo curioso fenomeno: "effetto treno".
Se vivessimo in un mondo ideale (o a Zurigo) le partenze degli autobus dal capolinea sarebbero intervallate regolarmente, il traffico sarebbe uniformemente distribuito su tutto il tragitto, come pure sarebbe costante il tempo di attesa dei mezzi ai semafori e agli stop. Inoltre le persone in attesa sarebbero equamente distribuite su tutte le fermate e approderebbero alle stesse in un flusso continuo e regolare, come la soluzione fisiologica nell'ago di una flebo. In questo mondo ipotetico (e a Zurigo) l'effetto treno non esiste.
Se una qualsiasi delle meravigliose caratteristiche qui sopra elencate viene meno, il sistema generale subisce una perturbazione. Io ipotizzo che l'effetto treno sia causato da un disallineamento qualsiasi delle regolarità sopra descritte, e che questa "perturbazione iniziale del sistema" venga amplificata enormemente dal fatto, misurabile, che il tempo di sosta del bus alla fermata è direttamente proporzionale al numero di persone che salgono o scendono.
Se un bus non passa da un po' (per una qualsiasi delle perturbazioni alle ipotesi del mondo ideale: ad esempio un'auto parcheggiata in seconda fila che fa perdere tre minuti a uno degli autobus di una determinata linea, mezzo che chiameremo A), alle fermate successive si accumuleranno più persone in attesa. Ciò significherà, all'arrivo di A, tanta gente che deve salire (e scendere) e che farà perdere tempo tra vari "se non mi fa prima scendere poi lei non può salire" o "più avanti c'è spazio" o ancora "ma qui siamo nel terzo mondo": quindi il mezzo A, che all'inizio portava solo un lieve ritardo, dovrà sostare più a lungo, e ci saranno buone probabilità che l'autobus seguente (che a sorpresa chiameremo B, e che è partito alla cadenza programmata dal capolinea) riduca progressivamente la sua distanza da A. Di contro B arriverà alle fermate dopo che è passato A, che ha raccolto la maggior parte delle persone in attesa. Pertanto avrà minori tempi morti alle fermate (a volte anche zero) e maggiori probabilità di raggiungere A alle fermate successive. Una volta che B raggiunge A, non potendo sorpassarlo (1), terrà questa posizione a treno per tutta la durata del tragitto.
Stimo che in momenti particolarmente affollati i tempi di attesa alle fermate si allungano talmente tanto che in sette/otto fermate dal capolinea un autobus viene raggiunto dal successivo.
Visto che una linea urbana dalle mie parti prevede circa quaranta fermate, se ne deduce che A percorrerà gran parte del viaggio in una lunga e festosa fila con i vari B, C, e forse anche D, con un effetto treno di sicuro impatto scenografico ma dalle conseguenze devastanti sulla già fragile psiche dell'utente medio (2).

Note:
1) Questa regola di divieto di sorpasso tra autobus di linea non so se sia scritta o sia una semplice consuetudine, ma pare che nessun romano possa raccontare di aver visto due mastodonti arancioni che si fanno "lo sgarbo" senza essere sospettato di essere un cazzaro.
2) Ok, lo ammetto, non si tratta di un'analisi geniale che rivoluzionerà il sistema dei trasporti urbani, ma sappiate che ci ho pensato parecchio prima di scrivere sta cosa qua. Ognuno arriva dove può.

martedì 7 maggio 2013

Compilando un settetrenta

Messaggio all'Agenzia delle Entrate: quando faccio acquisti in farmacia mi chiedete il codice fiscale. Lo scontrino deve essere parlante, dichiarare senza ombra di dubbio tipologia dell'acquisto, identità dell'acquirente, detraibilità, deve persino far trapelare ipotesi di patologie. Non voglio pensare che tutte queste preziose informazioni vadano sprecate, al giorno d'oggi sono oro, lo sapete perfino voi, sono sicuro che le stipate da qualche parte, su un database in qualche server lontano.
Ebbene, mi dite perché cazzo ad ogni maggio devo ritirare fuori dai cassetti scontrini accartocciati e sbiaditi, devo tentare di leggerli con una lente d'ingrandimento in una mano e un prontuario nell'altra stando attento a sommare solo i farmaci detraibili che altrimenti poi mi fate l'accertamento, poi devo fare le fotocopie di tutto per il CAF e riempire a mano le caselle su un modello 730 che ha l'unico fottuto scopo di comunicarvi informazioni che già avete?
Un cordiale saluto.

giovedì 14 marzo 2013

Ancora sui vantaggi del furto

Oggi fa una settimana che mi hanno rubato lo scooter; da allora nei movimenti da e verso il lavoro e nei i trasferimenti connessi con la giornata feriale media (scuola bimbe, piccole spese, riunioni di lavoro fuori sede, ecc.) utilizzo esclusivamente i mezzi pubblici e i miei onorati piedi. Ho raccolto sufficienti dati per farvi sapere come sta andando.

Aperta parentesi. Mi hanno fatto notare che il termine "motorino" utilizzato nel precedente post a designare il mezzo che mi è stato fraudolentemente sottratto, un Liberty 150, era alquanto impreciso, e denotava l'appartenenza del sottoscritto ad un generazione cresciuta versando miscela al 2% nei poco capienti serbatoi di Ciao e Sì Piaggio. Me ne scuso. Da oggi per indicare un motociclo di piccola cilindrata utilizzerò il più moderno "scooter". Va bene così, pignoletti quarantenni dei miei cabasisi? E chiusa parentesi.

La settimana trascorsa è stata utile per la verifica delle stime dei tempi di trasferimento tramite misure effettive, e mi ha fornito l'occasione di meravigliarmi per l'accuratezza delle prime grazie ad un congruo campione delle seconde. Le stime più accurate erano quelle relative ai tratti a piedi, più che altro per due motivi: primo, un buon runner conosce sempre la propria andatura, secondo, quei tratti non sono inficiati da Tempi di Attesa Mezzi Pubblici su Ruote (in seguito TA), sempre di difficile valutazione.
Di seguito uno schema dei miei percorsi usuali con l'indicazione dei tempi effettivi espressi in minuti. Non viene analizzato il tratto metro-ufficio in quanto rimane immutato rispetto a prima e non era sottoposto a verifica (anche quando avevo lo scooter, il mezzo veniva utilizzato per arrivare fino alla fermata della metro per poi proseguire con quella).


Percorso con bus a piedi con scooter
casa-scuola NA 4 4
scuola-metro 15 19 5
casa-metro 15 21 7





NB: i tempi "con bus" comprendono il tragitto a piedi da e per la fermata del bus (6 minuti), il tratto in bus (6 minuti) e una media di TA (3 minuti). I tempi "con scooter" comprendono le fasi propedeutiche all'utilizzo del motomezzo, quali apri il bauletto, infila i guanti, indossa il casco e fallo indossare ai passeggeri, richiudi il bauletto ecc., operazioni che, soprattutto nei tratti brevi, pesano molto sui tempi totali del viaggio. Questo fattore "preparazione", insieme al fatto che lo scooter, a differenza dei piedi, è tenuto a seguire i percorsi obbligati del traffico (tipo i sensi unici e i semafori), rendono uguali i tempi di percorrenza dello scooter e dei piedi nel tragitto casa-scuola.

Ora, già vedo le boccucce dei pignoletti di cui sopra che si aprono a facili considerazioni: Tacchino, come fai a sapere i tempi dei trasferimenti con scooter se tu uno scooter non ce l'hai più? Non mi dirai che li avevi presi prevedendo il furto e la tua successiva decisione di utilizzarli per un post? O non mi dirai (peggio) che quei tempi li stai stimacciando proprio ora mentre scrivi, con l'evidente incentivo a sovrastimarli per dimostrarci che la tua decisione di rinunciare allo scooter è ben ponderata?
A quei pignoletti io rispondo: fottetevi.

Analizziamo piuttosto i dati: non sussistono particolari problemi sul tratto casa-scuola, per il quale il nuovo status di pendolare appiedato non mi ruba nemmeno un minuto. Appare invece evidente come, nei tratti da e per la fermata della metro, la scelta tra aspettare il bus e avviarsi a piedi dipende esclusivamente da TA. Se TA è maggiore della differenza tra il tempo dello stesso tratto a piedi e 12 minuti (tempo di percorrenza con bus al netto di TA), allora conviene andare a piedi, altrimenti meglio aspettare il bus. Il problema è che TA è poco prevedibile. Alcune fermate del centro sono munite di palette elettroniche che informano su TA, ma da me non sono ancora arrivate. Esistono poi alcune modalità per furbofoni (Apps tipo Roma Bus o anche una visita al sito dell'Atac) dove vengono forniti con sufficiente accuratezza i minuti da aspettare, ma per ora le mie dotazioni tecnologiche non arrivano a tanto. Di solito mi organizzo in maniera empirica: se vedo che la fermata è vuota, ci sono buone probabilità che il bus sia appena passato, e che quindi ci sarà da aspettare più dei 3 minuti medi. In quei casi vado a piedi. Altrimenti provo ad aspettare 4 minuti (nel caso del tratto scuola-Metro) o 6 (nel caso del tratto casa-metro): se entro quelli non vedo stagliarsi un mastodonte giallo-arancione all'orizzonte, vado a piedi. La misurazioni dei giorni scorsi indicano inolte che TA varia nel corso del giorno, muovendosi da valori prossimi allo zero di mattina (quando le corse sono più frequenti e spesso con un breve scatto felino riesco a salire sui bus che scorgo in arrivo mentre mi avvicino alla fermata) fino ad un massimo di 5 o 6 minuti della sera. Oltre i 6 minuti non saprei dire, visto che come ho già detto superata quella soglia mi avvio a piedi.
E' sicuramente vero che i tempi con scooter in questi tratti medio-lunghi sarebbero minori, e che il vantaggio cresce nel tratto più lungo (casa-metro), arrivando ad un risparmio massimo di 14 minuti rispetto ad un percorso totalmente a piedi. Ma 14 minuti non sono molti se li confrontate con le ere geologiche o con i vantaggi di muoversi senza mezzi meccanici propri, vantaggi che per vostra comodità riepilogo:




La mia solita fermata del bus

  • Risparmio di denaro (tra assicurazione, bollo, carburante, manutenzione, accessori arrivavo a circa 800 euro l'anno. A questi va aggiunto l'eventuale ammortamento dell'acquisto del mezzo, che nel mio caso era prossimo allo zero, ma in caso di scooter nuovo fiammante può arrivare anche a mille euro l'anno)
  • Meno incidenti stradali
  • Meno litigi per questioni di traffico
  • Nessun impatto ecologico aggiuntivo per la comunità
  • Allenamento mattutino e serale con cardio walking (in caso di tratti completamente a piedi)
  • Possibilità di utilizzo migliore del tempo: posso ascoltare la radio nei tratti a piedi recuperando il tempo completamente perso della guida, posso telefonare o inviare sms nei tratti in bus (tratti durante i quali l'ambiente scarsamente confortevole e la brevità del percorso non consente letture più impegnate)
  • E, last but not least, notevole interesse faunistico della mia solita fermata del bus.

Conclusione uno: viva l'emancipazione dai mezzi privati.
Conclusione due: anche se avessi raggiunto la conclusione uno qualche tempo fa, non sarei comunque mai riuscito a sbarazzarmi di un motorino scooter perfettamente funzionante. Ergo, ringrazio pubblicamente lo sconosciuto che mi ha aiutato in questa evoluzione verso la libertà, anche se avrei preferito l'utilizzo di una efficace comunicazione interpersonale rispetto al furto con scasso.
Un'ultimissima considerazione. Come vi sarete probabilmente accorti, questa emancipazione dai mezzi meccanici privati mi elettrizza anzichenò, e fino a ieri non me ne riuscivo a spiegare completamente il motivo.
Poi stamattina l'ho capito: organizzare spostamenti basati solo sui mezzi pubblici e sui piedi mi riporta indietro di vent'anni, quando giravo l'Europa in treno e in autostop armato solo di un biglietto ferroviario Inter Rail, di scarpe comode e di un pollice sfacciato.
Se sostituisco "Roma" a "Europa" e "tessera ATAC" a "Inter Rail" ecco che quel senso di libertà pare riaffacciarsi.
Come dite? Durerà poco? Può darsi. Intanto godo.

giovedì 28 febbraio 2013

Che bello, oggi è l'ultimo giorno di scuola

Avevo uno zio che anni fa vinse un concorso alle Poste. Per qualche anno maneggiò raccomandate e assicurate, poi decise che quello non era il suo mestiere, lui aveva sempre desiderato fare il parrucchiere. Si licenziò e entrò come apprendista in un salone del quartiere.
Mi piace pensare che anche il Papa si sia accorto che quel mestiere lì, lui proprio non voleva farlo.

venerdì 21 dicembre 2012

21 Dicembre 2012, sera

Pensa che mi sono pure preso un giorno di ferie per godermi lo spettacolo e alla fine sta profezia dei Maya era 'na stronzata.
Aspetto un'altra mezzora e poi vado a dormire.

sabato 15 dicembre 2012

Di nuovo sulla congettura di Babbo Natale

Siamo quasi a natale, vi ripropongo quanto scrissi un anno fa. Alcune condizioni al contorno sono variate, ma il contesto di base è immutato. La congettura di Babbo Natale, come quella di Goldbach o quella dell'Anima, pur non dimostrata, è ritenuta vera dai più.
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Mia figlia V. ha sei anni e crede a Babbo Natale.
Fin qui nulla di strano, i bimbi credono a quello che i grandi raccontano loro, la capacità critica di analizzare i fatti senza lasciarsi influenzare dalla tradizione e dalle voci del popolo arriva solo dopo, se arriva. E poi credere a Babbo Natale è anche una buona spiegazione per alcuni fatti che non si riescono a spiegare altrimenti: chi porta tutti quei regali? Chi è quel signore grasso vestito di rosso che campeggia sui cartelloni pubblicitari? E, soprattutto, se ci credono tutti ci sarà un motivo, no? E quindi quella di Babbo Natale è una congettura accettata all’unanimità (perlomeno nel mondo dei bimbi).
La compagna di banco di mia figlia, E., qualche settimana fa ha cominciato a sollevare dei dubbi, ha individuato alcuni elementi che si scontrano con la congettura di Babbo Natale. Secondo lei è difficile portare in una sola notte regali a tutti i bimbi del mondo, i bimbi sono davvero tanti. E poi E. non si spiega come facciano le renne a volare, le ha viste allo zoo e le sono sembrate tutt’altro che leggére e sicuramente prive di ali. E. ha raccolto degli elementi che ritiene oggettivi e ha avanzato un’ipotesi alternativa a quella classica: lei crede che i regali vengano portati da zii, nonni e genitori, e che Babbo Natale (è dura da scrivere, ma riporto solo l’ipotesi di E.) non esista. E. ritiene che quest’ipotesi si adatti meglio ai fenomeni osservati, e renda superfluo ricorrere a sovvertimenti temporanei delle leggi di natura (estensione del tempo della notte di Natale e renne che volano). Se si postula la non esistenza di Babbo Natale, o perlomeno la sua estraneità alla consegna dei regali, tutto è più semplice. Non c’è nemmeno bisogno dell’efficiente quanto anacronistico servizio postale che permette la comunicazione dei desideri dei bimbi. Tutto fila liscio senza troppe complicazioni. Ad E. tutto questo sembrava lampante, almeno fino a ieri.
Ma purtroppo E. è rimasta sola. La congettura di Babbo Natale, sostenuta all’unanimità dal resto dei bimbi nonostante le ragionevoli obiezioni sollevate da E., è ancora il sistema di spiegazione della realtà universalmente accettato in classe. La piccola E. è stata all’inizio trattata con incredulità, poi è stata sbeffeggiata e infine anche isolata in qualche gioco. Ma E. è un animale sociale, e ne soffre.
Stamattina a colazione mia figlia V. mi ha detto che ora anche E. crede a Babbo Natale. Non è riuscita a rimanere sola per molto, vuole far parte del gruppo, vuole che gli altri la considerino una di loro.
A quelle condizioni forse avrei fatto lo stesso.

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mercoledì 7 novembre 2012

What?

Stamattina mi sono attardato a casa per seguire il discorso di Obama subito dopo la vittoria. Parlava con orgoglio della sua nazione, indicando come fondamento della democrazia americana e come principali armi per uscire dalla crisi l'eccellenza del sistema di istruzione, i continui investimenti in ricerca e l'eterogeneo cosmopolitismo della popolazione. La cosa strana è che sono tutti concetti che non ho mai sentito nemmeno sfiorare durante i talk show nostrani. Ma forse ho capito male, colpa dell'inglese.

lunedì 8 ottobre 2012

La verità in dodici volumi


I dodici volumi di "lezioni di Xologia"

È che quando ti trovi a dover combattere con una qualsiasi disfunzione del tuo apparato locomotore, del guscio che i tuoi geni hanno assemblato durante i nove mesi di gestazione e manutenuto durante i successivi X anni di crescita, e per il quale hanno acquisito informazioni nel corso di milioni di anni di evoluzione, quando questo guscio scricchiola, e devi confrontarti con una malattia, un dolore, un intorpidimento, un impedimento in genere, l'unico desiderio al quale aneli è trovare un esperto che con totale empatia possa comprendere a fondo i tuoi sintomi, elaborare con certezza la diagnosi e prescrivere in assoluta sicurezza le efficaci terapie. Decidi pertanto di rivolgerti ad uno che ne sa parecchio, e per un suo consulto sei disposto a investire (non a spendere, sul proprio corpo si investe) chili di euro, senza turbe nè analisi di sostenibilità finanziaria. Ed è proprio su questa tua debolezza genetica che si basa l'intera industria medica e paramedica (includendo in essa i professionisti delle manipolazioni, delle nuove arti diagnostiche, delle medicine alternative, delle tecniche riabilitative, delle specialità orientali, i natu-fito-omeo-cromo-osteo-chiro specialisti e robe varie). E ognuno di loro (medici, paramedici e robe varie, per brevità MPRV) sa che il suo mestiere è campare di questa industria ed è su questo che si gioca tutto. E per battere la concorrenza deve presentare la sua specialità come l'unica risolutiva, e le altre come mondezza. Quest'ultima parte gli viene piuttosto facile, considerato che lo specialista MPRV ci crede davvero in quello che fa, e non perché sappia tutto della sua specialità, ma perché quella è l'unica cosa della quale sa qualcosa.

Come si difende il paziente paziente (una volta come aggettivo e una come sostantivo)?

Regola numero uno: deve smetterla di credere ai santoni. La migliore tecnica mentale per raggiungere lo scopo è inquadrare il MPRV nella categoria di impiegati della salute, questo già aiuta a togliere loro quell'aura di infallibilità ed onniscienza; capire che ognuno dei MPRV, anche il professorone primario acclamato dalla critica, la mattina si alza e, dopo aver fatto la cacca come tutti, si guarda allo specchio e dice "che palle, anche oggi devo visitare tre (o quattro, o cinque, a seconda della sua fama) tizi malaticci e fargli credere che posso risolvere il loro problema", e i più saggi e oculati aggiungono "e pensare che non ci capisco una mazza, ma dovrò pur mangiare no?". L'importante è comprendere che fare il MPRV è un mestiere come un altro, ben lungi dall'essere una vocazione, tantomeno un dono da mettere a disposizione dell'umanità. E' gente che tira un po' ad indovinare. E per farlo ha a disposizione solo la tecnica alla quale si è dedicato in mesi di duro studio e in anni di duri incassi, una tra le tante tecniche esistenti, nient'altro, con le sue mezze verità e i quarti di certezze. Alla prossima visita provate a distogliere l'attenzione dal viso rassicurante e saccente del MPRV di turno e a guardarvi intorno: nel suo studio di specialista in Xologia, proprio sulla libreria alle sue spalle, troverete in perfetta solitudine ed isolamento i dodici volumi di "lezioni di Xologia", la sua unica verità, la spiegazione buona per tutte le stagioni.

Regola numero due: deve fare da solo. La maniera migliore che fino ad oggi ho scovato per affrontare una disfunzione del mio corpo coincide più o meno con questo processo: A) cerco di capire il problema al meglio, utilizzando fonti che non implichino un contatto diretto con un MPRV (va bene internet, un amico che ci è passato, in extremis anche una chiacchiera al bar); B) raccolgo i dati sui metodi di risoluzione praticati e sugli esiti; C) sperimento su me stesso. Fare da soli insomma, in modo che, quando ci si confronterà con un MPRV (passo purtroppo a volte necessario) 1: sai di che si parla e 2: provi a non farti prendere troppo per il culo. Per lo meno cercare di capirci qualcosa aiuta a mettere insieme le mille mezze verità offerte dagli specialisti e a tenere il cervello in esercizio.

Dietro a queste regole del faidate in salute c'è un'unica certezza: la medicina, allopatica o alternativa, ufficiale o orientale, manuale o teorica, non è una scienza, al massimo è una pratica empirica. Va per tentativi. Stando così le cose, li faccio io, i tentativi.

E poi quando finalmente, e sopra la tua pelle, capisci tutto questo e raggiungi un nuovo stato di equilibrio psicofisico che ti porta a sovvertire il consueto ordine di priorità, e riesci finalmente a dirti che in fondo ci sono altre cose nella vita oltre alla salute, allora succede che torni a casa, accendi il modem, e ti accorgi che IOS 6 non è compatibile con il tuo Ipad di prima generazione.
E allora sì che le palle ti girano.

giovedì 4 ottobre 2012

Infinite return (and a portrait of the artist as a young man)


Alla fine ho seguito il consiglio degli esperti e di qualche amico che con me sta dividendo questa fase di passione wallaciana: dopo la conclusione di Infinite Jest (IJ) e dopo un'incursione lampo in qualche racconto e in Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai Più, ho intrapreso la poco rischiosa e ben battuta via cronologica, e ho azzannato La Scopa Del Sistema (LSDS). Aiutato non poco dal nuovo e-book reader che mi permette di leggere un po' dovunque, ho sbrigato la pratica in un paio di settimane.
Togliamoci subito ogni dubbio: LSDS non è IJ. Non ne ha la complessa organicità, il fascino assuefacente, gli indimenticabili e adorabili personaggi, soprattutto non ti avvinghia nei suoi legacci. Però ha in embrione alcuni dei tratti che poi verranno sviluppati in IJ e in altri scritti, e già basterebbe questo a farne un libro che vale la pena leggere.
C'è la volontà di giocare sugli aspetti del metaromanzo: in parecchi punti i personaggi sembrano pronti ad accorgersi della loro natura di personaggi, a prenderne coscienza e a agire di conseguenza, forse ribellandosi al loro autore, e pare che parecchie delle loro turbe psichiche siano dovute proprio a questa consapevolezza negli strati più emergenti del subconscio.
C'è la non-linearità (ma del resto nemmeno i racconti di venti pagine sono lineari in DFW): LSDS è un libro complesso, polimorfico, a tratti anche volutamente confuso, di quella confusione che a ben studiarla alla fine un ordine, una linea conduttrice, pensi di poterceli trovare. I personaggi non sembrano mai ben identificabili, non è semplice nemmeno capire nei dialoghi chi dice cosa, i nomi si ripetono e spesso si confondono, quelli a cui pensavi di poterti affezionare si trasformano in inaffidabili squilibrati (Rick Vigorous su tutti), altri che immagini abbiano un ruolo fondamentale (se non altro perchè ti sembrano alter ego di DFW) spariscono dopo poche pagine (come La Vache, l'Anticristo, nel quale trovo molti tratti in comune con Pemulis).
Ci sono passaggi molto godibili, come il capitolo su La Vache o i dialoghi tra i protagonisti e lo psicoterapeuta Dr. Jay.
Insomma, un bel libro, ma niente di memorabile. Beh, ma Wallace aveva ventitre anni, direte voi; ma a me, lettore e non biografo, compete al massimo un giudizio sul libro in se stesso, non un esame di maturità dell'autore.

A proposito, l'ultima parola del romanzo, quella mancante:  mi dicono che sia facile indovinarla, ma io non ci sono riuscito. Qualcuno di voi mi aiuta?

PS (lungo): Vabbè, adesso tanto per cambiare parliamo un po' di IJ, che proprio non riesce a lasciarmi in pace. Butto lì un'ipotesi per la quale ho provato cercare conferme in rete ma senza troppi esiti.

Estasi di santa Teresa d'Avila
Gian Lorenzo Bernini
Chiesa Santa Maria del Vittoria a Roma
(foto e didascalia finalizzate unicamente
ad attirare ricerche da Google immagini) 

Ipotesi: David Foster Wallace ha qualcosa a che fare con l'Italia. Non so bene cosa, ma mi pare che dissemini i suoi romanzi e racconti di brevi riferimenti al nostro paese, alle nostre città e alla loro storia.
Fatti a conferma dell'ipotesi (elenco qui solo quelli che ho trovato in IJ, ma ce ne sono in altri scritti):

pag 33, e altre successive, viene nominato il dott. ZEGARELLI, dentista di Hal, di chiare origini italiane.

pag 281, e altre successive, viene descritta l'Estasi di Santa Teresa, del Bernini, a Santa Maria dellaVittoria, a Roma
pag 390, l'Italia invade l'Albania durante la partita di Eschaton
pag. 301, si accenna all'Adriatico e alle sue coste come posto molto tranquillo
pag 793, riferimento al pubblico italiano come divoratore di miti (tennistici?)
pag 809, si accenna ad una tipica (?) espressione degli italiani, il concetto del senza errori
pag 970, Hal immagina di camminare per la via Appia.
pag 1026, si prendono a paragone i carri armati di Mussolini che passavano sopra gli eserciti etiopici armati di lance
pag 1235 nota 209, Wayne scivola sulla fine terra di Roma (si fa riferimento agli internazionali di tennis di Roma).
inoltre sono sicuro che in un punto nel libro, purtroppo non ho segnato quale, si accenna alle origini umbre di James Incandenza.

Questo è quanto ho raccolto, e mi pare decisamente più di quanto un americano medio di solito infila in un libro riguardo ad un paese europeo.
Che ne dite?
Conferme? Smentite?

lunedì 23 luglio 2012

Meteoipotesi


Tuoni e fulmini! Un temporale!
Secondo post di una involontaria quanto, prometto, brevissima saga meteorologica.
Famiglia al completo sulla terrazza dei nonni abruzzesi, siamo lì che guardiamo le nuvole mosse a velocità notevoli dal forte vento di nord est. Si sentono in lontananza i primi tuoni.
Ora, la spiegazione di questi spaventevoli fenomeni atmosferici fornita fino ad oggi alle bimbe, finalizzata non certo ad una conoscenza approfondita della meteorologia quanto a trasferire il fenomeno stesso dalla zona delle loro paure infantili a quella più rassicurante delle casistiche conosciute, è stata lo scontro tra nuvole: non vi preoccupate bimbette implumi, mucchietti d'ossa, non c'è da aver paura, il tuono è solo il rumore di due nuvole che si scontrano, poi le nuvole si rompono ed esce la pioggia, proprio come farebbero due secchi pieni d'acqua. Efficace come spiegazione perché con una ipotesi spieghi due fenomeni, tuono e pioggia, e con un po' di fantasia ci ficchi anche il fulmine, una semplice scintilla da impatto, una banale fiammata da collisione, e sappiamo come il successo delle migliori teorie scientifiche provenga a volte da questo connubbio: semplicità delle ipotesi e somiglianza con fenomeni più conosciuti.
Il problema è che questo è quanto abbiamo sempre detto loro a partire dall'età della prima comprensione del linguaggio, aiutati forse dalla clemenza del clima romano che non ci abitua a temporali ed acquazzoni, ma incuranti del fatto che queste piccole umane stanno crescendo, e che alcuni passaggi logici non sarebbero sopravvissuti a lungo alla cruda razionalità alla quale stiamo provando ad abituarle su quasi tutti gli altri fronti (a parte quella storia residuale su Babbo Natale, ovvio).
Fatto sta che la settenne, con il senso pratico tipico dei guastafeste, dopo qualche secondo con il naso in aria ad osservare il movimento delle nuvole, si ritrova lì a calpestare l'appena ristabilita armonia familiare con un candido: pà, secondo me non è così... le nuvole vanno tutte nello stessa direzione, come fanno a scontrarsi?
Ho trovato completamente inutile la strenua difesa dei nonni basata su collisioni laterali e altre simili unghiate sui vetri. Ho preferito rifugiarmi in un più dignitoso silenzio.

mercoledì 18 luglio 2012

Oltre la media



Estate 2012, incredibile caldo a Roma


Sì, va bene, siamo d'accordo, anch'io come voi credo che l'umanità stia pian piano distruggendo l'ambiente in cui vive, e sì, sono con voi quando dite che l'ecosistema sta mostrando i segni evidenti di modifiche strutturali che alla lunga porteranno ad un riassestamento su nuovi livelli di equilibrio attorno a valori ben diversi da quelli che conosciamo, forse addirittura incompatibili con la vita umana. E ok, le vedo anch'io le foto dei ghiacciai che si stanno sciogliendo.
Ma quello che non capisco è perchè deve far notizia se un valore metereologico si attesta su livelli diversi da quelli della media del periodo. Edizione straordinaria, ieri abbiamo avuto temperature di gran lunga superiori alla media del periodo. Incredibile, lo scorso Febbraio ha nevicato più della media.
La media, ecco. Da quello che avevo capito a scuola, è così che funziona, la media: se hai dei valori diversi tra loro e vuoi tirare fuori un solo numero che sia abbastanza rappresentativo, una delle possibilità che ti si offre (non è l'unica, ma è la più utilizzata) è mostrarne la media, ossia la somma dei valori stessi diviso la loro numerosità. Di solito la media è un valore che si pone tra gli estremi della serie, e lascia presupporre che in origine i valori misurati erano alcuni alti, alcuni bassi, alcuni proprio vicini a quello che in futuro sarà la loro media, ma probabilmente non tutti uguali. Se a Roma a luglio in media ci sono 30 gradi (fonte: ilmeteo.it, il sito più visitato dopo Google, a quanto mi risulta), è proprio perchè qualche volta ce ne sono stati 28 e qualche altra 34, e non c'è nulla di eccezionale in quel fottuto 34, è semplicemente uno dei valori che ha contribuito a determinare la media di 30.
Niente, solo questo.

domenica 20 maggio 2012

Caro bimbo, ti insegno a giocare

Quando sei genitore di un paio di esemplari femmina di homo sapiens non hai molta dimestichezza con squadre, pulcini, tornei del sabato, mister, rettangoli verdi. Ogni tanto tuttavia, senza quasi sapere come (pensavi di essere andato ad una semplice festa di compleanno) ecco che ti ritrovi nell'area party di un circolo sportivo, nel bel mezzo di campi in erba sintetica di calcio calcetto e calciotto perlopiù insegnato ai piccoli, ed ecco che, alle prese con la tua solita asocialità, un bel po' distante dagli animatori che animano le piccole anime accorse per il compleanno, ti ritrovi a guardare una partita tra bimbetti ottenni, di quelle vere che credevi esistessero solo nella mitologia dei racconti da barbecue: due squadre che si fronteggiano in campo e due gruppi di genitori che innalzano barricate sugli spalti. E le azioni di guerra più cruente, quelle sugli spalti, le osservi non tra avversari, ma tra genitori di compagni di squadra. Frasi acide indirizzate dal genitore del piccolo attaccante a quello del minidifensore: "ahò, a tu fijo na sera spiegajelo che sso gli stoppe", a cui segue una pronta risposta: "ma sta zitto, che tu fijo manco ar militare lo pijeno". In alcuni casi le tattiche belliche si fanno di più ampio respiro, e i cannoneggiamenti dagli spalti  vengono indirizzati direttamente in campo: "a regazzì, si nun segni stasera torni appiedi".
Ovvio che l'aggressività elargità così ad ampie mani si ritrova pari pari in campo, tra i piccoli agonisti, e viene accompagnata dal dileggio, dalla piccola furbizia, dalla finta caduta, dal fallo celato ad arte. Ecco dove si allevano i futuri buzzurri, nei campetti di calcio dei pulcini.
Buono a sapersi.