venerdì 21 giugno 2013

Effetto treno

Non so quanti di voi, in determinate fasi della vita, per vicissitudini causate da difficoltà logistiche, da verifiche sull'impatto ecologico delle proprie scelte, da calcoli dei costi connessi agli spostamenti o, semplicemente, perché poco avvezzi alla guida di mezzi di locomozione privati, abbiano avuto occasione di muoversi con gli autobus urbani.
Quelli tra di voi che lo hanno fatto, probabilmente si saranno accorti che alle fermate i mezzi pubblici su gomma sovente sopraggiungono in serie, nel senso che per un bel po' non ne passa nessuno e poi ne passano due o tre uno dietro l'altro. Come le onde oceaniche. Ai fini dell'analisi che segue, permettetemi di chiamare questo curioso fenomeno: "effetto treno".
Se vivessimo in un mondo ideale (o a Zurigo) le partenze degli autobus dal capolinea sarebbero intervallate regolarmente, il traffico sarebbe uniformemente distribuito su tutto il tragitto, come pure sarebbe costante il tempo di attesa dei mezzi ai semafori e agli stop. Inoltre le persone in attesa sarebbero equamente distribuite su tutte le fermate e approderebbero alle stesse in un flusso continuo e regolare, come la soluzione fisiologica nell'ago di una flebo. In questo mondo ipotetico (e a Zurigo) l'effetto treno non esiste.
Se una qualsiasi delle meravigliose caratteristiche qui sopra elencate viene meno, il sistema generale subisce una perturbazione. Io ipotizzo che l'effetto treno sia causato da un disallineamento qualsiasi delle regolarità sopra descritte, e che questa "perturbazione iniziale del sistema" venga amplificata enormemente dal fatto, misurabile, che il tempo di sosta del bus alla fermata è direttamente proporzionale al numero di persone che salgono o scendono.
Se un bus non passa da un po' (per una qualsiasi delle perturbazioni alle ipotesi del mondo ideale: ad esempio un'auto parcheggiata in seconda fila che fa perdere tre minuti a uno degli autobus di una determinata linea, mezzo che chiameremo A), alle fermate successive si accumuleranno più persone in attesa. Ciò significherà, all'arrivo di A, tanta gente che deve salire (e scendere) e che farà perdere tempo tra vari "se non mi fa prima scendere poi lei non può salire" o "più avanti c'è spazio" o ancora "ma qui siamo nel terzo mondo": quindi il mezzo A, che all'inizio portava solo un lieve ritardo, dovrà sostare più a lungo, e ci saranno buone probabilità che l'autobus seguente (che a sorpresa chiameremo B, e che è partito alla cadenza programmata dal capolinea) riduca progressivamente la sua distanza da A. Di contro B arriverà alle fermate dopo che è passato A, che ha raccolto la maggior parte delle persone in attesa. Pertanto avrà minori tempi morti alle fermate (a volte anche zero) e maggiori probabilità di raggiungere A alle fermate successive. Una volta che B raggiunge A, non potendo sorpassarlo (1), terrà questa posizione a treno per tutta la durata del tragitto.
Stimo che in momenti particolarmente affollati i tempi di attesa alle fermate si allungano talmente tanto che in sette/otto fermate dal capolinea un autobus viene raggiunto dal successivo.
Visto che una linea urbana dalle mie parti prevede circa quaranta fermate, se ne deduce che A percorrerà gran parte del viaggio in una lunga e festosa fila con i vari B, C, e forse anche D, con un effetto treno di sicuro impatto scenografico ma dalle conseguenze devastanti sulla già fragile psiche dell'utente medio (2).

Note:
1) Questa regola di divieto di sorpasso tra autobus di linea non so se sia scritta o sia una semplice consuetudine, ma pare che nessun romano possa raccontare di aver visto due mastodonti arancioni che si fanno "lo sgarbo" senza essere sospettato di essere un cazzaro.
2) Ok, lo ammetto, non si tratta di un'analisi geniale che rivoluzionerà il sistema dei trasporti urbani, ma sappiate che ci ho pensato parecchio prima di scrivere sta cosa qua. Ognuno arriva dove può.

martedì 18 giugno 2013

I cento passi



Il mio quotidiano tragitto casa-ufficio prevede nell'ordine: bus, metro A e metro B (viceversa quello ufficio-casa). Tra un mezzo di trasporto e il successivo, percorro dei tratti a piedi, in tutto circa duemilacento passi, durante i quali sono costretto giocoforza a interrompere la lettura e a stare un minimo attento a dove metto i piedi. Di solito ne approfitto per sollevare lo sguardo e spaziare su paesaggi urbani e scene di varia umanità.
I cento passi del titolo sono quelli che vanno dalla fermata del bus nei pressi di piazzale degli eroi fino all'incrocio con via giulio venticinque, molto interessanti da un punto di vista antropologico/faunistico.
A mo' di esempio descrivo quelli di ieri.
Prime trenta falcate con passaggio davanti al grosso edificio che ospita una scuola media pubblica, l'anno scolastico è finito ma davanti all'ingresso sostano cinque o sei gruppetti di adolescenti in attesa di entrare per qualche attività estiva, raccolti rigorosamente per etnia, senza alcuna commistione: i neri stanno coi neri, gli asiatici con gli asiatici, i romani tra di loro; dieci passi dopo, da una smart con gli interni in pelle rossa esce una quarantenne anch'essa rossa, pluriaccessoriata, fisico prorompente, abitino svolazzante, iphonecinque all'orecchio e borsa fendi, attrae gli sguardi degli astanti nell'officina per scooter proprio di fronte; ancora diciotto passi e una donna della stessa età ma dalla pelle decisamente più scura fruga in un cassonetto aiutandosi con un uncino ricavato da una vecchia gruccia per abiti; ventidue passi più in là sosta il camioncino per la raccolta sperimentale dell'umido, una coppia matura apparentemente dello stesso ceto sociale della rossa lascia diligentemente il proprio sacchetto con i resti di una cena basata (ci scommetterei dieci a uno) sulla dieta dukan; i successivi venti passi sfilano lungo due bancarelle tenute da pakistani, la prima vende cenci "tutto a 5 euro", la seconda jeans femminili attillatissimi esposti su manichini ipersexy.
Sta a voi unire i puntini e capire cosa ne esce fuori. E ricordatevi che il superfluo esiste sempre unicamente per farsi prendere a calci in culo.

lunedì 17 giugno 2013

Carnevale della matematica #62


L'annuncio è un po' tardivo, ma vi segnalo che lo scorso venerdì si è tenuta l'edizione 62 del Carnevale della matematica, ospitata stavolta dall'esimio Popinga sul suo blog di scienza e letteratura. Tema del mese: matematica e genio.
Vale la pena fare il giro completo: l'organizzazione è impeccabile e i contributi golosi.

mercoledì 12 giugno 2013

Storia di panza e di sostanza

E' successo qualcosa, stasera.
Uno di quegli eventi che pare disorientare il sistema di valori al quale credevi di aver aggrappato la tua vita. O meglio. Che dimostra come il tuo sistema di valori non è l'unico ipotizzabile, che la lista delle priorità dipende da troppe variabili, dalla cultura, dalle esperienze, dai geni, dal ceto sociale, dal sesso, dall'età, dall'etnia.
L'evento è accaduto sulla metro, crocevia e amalgama di tutta quella roba che ho elencato qualche riga sopra, nonché microcosmo adatto a esperimenti con cavie umane. 

Alla fermata di Circo Massimo solite procedure di sbarco-imbarco: le porte si aprono, gente scende, gente sale, le porte si chiudono. Tra la fine della fase tre e l'inizio della quattro, una coppia di ragazze rom si accingono a salire a bordo, avranno 35 anni in due, la prima si infila dentro agilmente, la seconda è incinta di almeno otto mesi e prova a seguire la prima, ma la fase quattro è in pieno svolgimento, e le porte stanno già scorrendo sui propri binari. Ecco che la ragazza col pancione, avendo già mezzo corpo dentro (il pancione) e mezzo fuori (il resto) prova a opporsi alla pressione meccanica che le porte stanno già facendo sul feto e sul suo involucro aiutandosi con la forza delle proprie manine di sedicenne. 
Ora, io, nella mia decennale vita di pendolare metropolitano, quell'esperienza di oppormi alla fase quattro con le mie forze di maschio quarantenne per nulla flaccido, anzi, modestamente, in discreta forma, l'ho fatta talvolta, e vi comunico che non è roba da poco: non è sufficiente appoggiarsi dolcemente come alle porte dell'ascensore, qui c'è da fare forza, e parecchia. E lei ci riesce così, con la consistenza gommosa del feto che porta in grembo e con le proprie manine di sedicenne. Rischiando. Forte. (Il tutto dura talmente poco tempo da non dar modo a nessuno degli astanti, me compreso, di intervenire). E alla fine, quando sente le porte che cedono e con un cigolio si riaprono, semplicemente sorride, senza nessun ansia sul viso, come si sorride a una piccola vittoria per una qualunque scommessa come tante altre nella vita. 
Immagino capirete che questa scena ha lasciato il segno in un osservatore come il sottoscritto pennuto, che pone il benessere della prole all'incontrastato primo posto in una ipotetica scala dei valori fondamentali della vita. Ancora di più perché questo osservatore credeva di avere compreso che il fondamento della sopravvivenza della specie, ben cablato all'interno delle pieghe aminoacidiche di tutti gli esseri viventi, fosse proprio la tutela della prole, a qualunque costo.Forse esagero, e questa storiella è semplicemente esemplificativa dell'incoscienza di un particolare individuo, per di più nell'età adolescenziale, e non del minor valore che un'intera etnia dà a una vita che nasce rispetto ad altre (pensate che ci sono etnie che mettono in discussione pure la pillola del giorno dopo); né tantomeno è un segnale di come alcuni istinti di conservazione della specie stanno via via sparendo facendoci prevedere un breve futuro di edonismo senile.
Fatto sta che il disagio lo sento ancora attaccato addosso. 
Ecco, mi chiedo (e vi chiedo) se questa sgradevole sensazione nell'osservare un completo sovvertimento dei propri valori di base in un individuo ben collocabile all'interno di un gruppo diverso dal proprio non possa chiamarsi "razzismo".

domenica 9 giugno 2013

Loop

Lo smodato apprezzamento per il vincolo di brevità proposto da Twitter mi fa trascurare il blog. Ma non credo ne sentiate la mancanza.