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giovedì 12 aprile 2018

Piccole cose da presidente

In quest'epoca di crisi post crisi, di ideologie superate e di valori sfumati, riuscire a trovare soddisfazione nelle piccole cose è il segreto della felicità. E allora c'è chi tifa la Roma, chi fuma il sigaro, chi si diletta con i videogiochi e chi è attento alla forma fisica.
Un Track Stand da Wikipedia
Il vostro presidente ultimamente trova soddisfazione nel fare il percorso lavoro-casa in bici senza mai mettere i piedi per terra. Niente di particolare, si tratta di circa 18 km di percorso urbano a Roma - pezzi isolati di ciclabile, lungoteveri, stradine, alcuni metri di marciapiede, tanti incroci e semafori, qualche piccolo senso vietato - senza staccare i piedi dai pedali. Le regole auto inflitte di questo giochino perverso prevedono inoltre che negli eventuali ma difficilmente evitabili momenti di stop non ci si possa appoggiare a supporti qualsivoglia (auto, pali, muri) ma si debba stare in equilibrio sui pedali, tecnica che gli anglosassoni chiamano track stand.
Il presidente ha ormai una percentuale di percorsi netti sul totale di circa il 70% e mira a raggiungere il 90% in tempi brevi. 
Le qualità richieste per raggiungere questi eccelsi risultati sono abbastanza comuni e facilmente esercitabili.
Una perfetta conoscenza del percorso permette di evitare incroci pericolosi con semafori interminabili e alta densità di traffico.
Una saggia scelta della velocità di marcia in prossimità degli incroci consente di arrivare al semaforo con una buona probabilità di vederlo illuminarsi di verde proprio al nostro arrivo.
Una certa dose di temerarietà aiuta a passare col rosso in caso di piccoli incroci pedonali o di evidente assenza di pericoli e di percorrere qualche via sufficientemente tranquilla in senso vietato.
Infine, un minimo di manico dà la possibilità, nei momenti critici agli incroci, di gestire una manciata di secondi in sufficiente equilibrio o, in caso di imbottigliamento da traffico, di saltare su un marciapiede per rubare metri alle auto e spazio vitale ai pedoni.
Per chi volesse cimentarsi nella sfida con il presidente o attenderlo appostato dietro un albero con la fionda, descrivo qui sotto il percorso in dettaglio:

  • Viale Europa
  • Via Tupini
  • Viale Egeo
  • Vicolo del Cappellaccio
  • Viadotto della Magliana
  • Riva di Pian due Torri
  • Via della Magliana
  • Lungotevere Inventori
  • Viale Marconi
  • Via Rolli
  • Via Portuense
  • Ponte Sublicio
  • Lungotevere Aventino e altri fino a Lungotevere Sangallo
  • Ponte Principe Amedeo
  • Via di Porta Santo Spirito
  • Via Cavalieri Santo Sepolcro
  • Via della Conciliazione
  • Via di Porta Angelica
  • Piazza Risorgimento
  • Via Leone IV
  • Viale Vaticano
  • Via Santamaura
  • Via Andrea Doria
  • Via delle Medaglie d'Oro
  • Piazza della Balduina
  • Piazza Mazzaresi
  • Via Festo Avieno (controsenso)
  • Via Macrobio
  • Via Lucano (controsenso)
e poi fino a casa (non vi do l'indirizzo preciso, dài).
Buone pedalate.

giovedì 6 marzo 2014

Due tweets troppo lunghi

1- L'uomo che viaggiava sui treni

Ci sei mai stata a Trieste? Trieste Centrale, 718 chilometri, sei ore e venticinque, Espresso Veloce. Io coi treni ci lavoro da quando c’avevo 21 anni, ora ne ho 75. Ho la tessera, eccola, vedi? Con questa vado dove voglio. Prima per Trieste manco c’erano i treni, ora ce ne sono due, uno alle 10,30 e uno alle 15,45, tutt’e due Espressi Veloci. I controllori quando mi vedono manco mi chiedono il biglietto, ce lo sanno che c’ho questa, io vado dove mi pare. E' che adesso c'ho da fare, scendo a Piramide, che devo pagà 'na multa, sennò oggi potevo andare a Verona. Sei mai stata a Verona Porta Nuova? 512 chilometri, quattro ore e cinque minuti. A Verona ci vanno un sacco di persone.
Lo sai che sei carina? ti porto a Livorno con me se ti va. Livorno Centrale.

(Scampoli di un monologo origliato stamattina su un vagone della Metro B. Tutti i dati relativi a orari, distanze e tempi di percorrenza sono quelli che mi ricordo, quindi probabilmente errati. Giusto per avvertirvi che è inutile che googlate e poi fate i saputelli.)


2- La magia della letteratura

Invece c’è una specie di: «A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io». Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi in comunicazione profonda e significativa con un’altra coscienza, in un modo in cui non ci riescono altre forme d’arte.

David Foster Wallace, da un'intervista concessa a Laura Miller nel 1996


martedì 3 dicembre 2013

Manuale di sopravvivenza per viaggiatori metropolitani. Capitolo Uno: l'abbigliamento

Il vero Viaggiatore Metropolitano si riconosce da come si muove, da quello che dice o meglio non dice, dai tragitti che predilige. Ma anche da come si veste.
L'abbigliamento è la caratteristica più evidente tra quelle che denotano un pendolare metropolitano scafato e tosto distinguendolo dai semplici U.O.M.P. (Utilizzatori Occasionali di Mezzi Pubblici). In un torrido pomeriggio di luglio o in una gelida sera di gennaio, indossare il capo giusto fa la differenza tra una serena passeggiata nell'intestino tenue della città e una vera e propria discesa agli inferi.
E' per questo che voglio mettere la mia ultradecennale esperienza al vostro servizio e offrirvi alcuni riferimenti (più precisamente: tre regole, quattro premesse, cinque casi pratici e due postille) per diventare anche voi Viaggiatori Originali Metropolitani Indubbiamente Tosti e Inossidabili (V.O.M.I.T.I.).

Regola Uno: controllate sempre di persona la temperatura esterna. Io ho montato un termometro fuori alla finestra della cucina, lo consulto ogni mattina, subito dopo aver acceso sotto al caffè. Non fidatevi MAI di quello che leggete sui siti del meteo, che ascoltate al TG o che vi annuncia al telefono vostra suocera: esagerano sempre: aggiungere tre gradi d'estate e toglierne tre d'inverno fa notizia e desta interesse. Ma è da U.O.M.P.

Regola Due: in caso di pioggia evitate in ogni modo gli ombrelli pieghevoli. Se piove poco sono inutili e tranquillamente rimpiazzabili da un cappuccio o un cappello, se piove parecchio riparano a malapena il cranio e al minimo refolo di vento si accartocciano. Se si prevede pioggia (in questo caso, ma solo in questo, un'occhiata ai siti del meteo non fa male) meglio un ombrello classico: ci sarà un motivo se ha lo stesso design da svariati secoli senza soffrire di obsolescenza.

Regola Tre: vestitevi sempre come se ci fossero almeno 7° o 8° più di quanto indica il termometro della Regola Uno. Il perché è spiegato in dettaglio nei seguenti Casi Pratici.

Premesse alla trattazione dei casi pratici:
  1. Per la trattazione dei casi che seguono si considererà la temperatura t rilevata alle 7.30 di mattina, ora standard di preparazione caffè di un pendolare metropolitano medio.
  2. Nei casi si tratterà solo degli indumenti di copertura della parte alta del corpo (dalla cintola in su). Per la parte bassa fate come vi pare: a meno che non siate tipi da pantalone di velluto a coste e stivali Timberland da boscaiolo in pieno Agosto, non è facile commettere errori grossolani.
  3. Mi rendo conto che i casi sono un po' troppo incentrati su capi maschili. Perdonate l'apparente androcentrismo dovuto con tutta probabilità al fatto che sono uomo, e provate ad adattare le regole ai capi femminili. Non dovrebbe essere così difficile trovare le equivalenze adatte.
  4. Nell'analisi dei casi, si tenga sempre presente che il corpo umano produce all'incirca 100 Watt di calore in maniera continua, anche a riposo. Si consideri inoltre che il vagone della metro o il bus che vi accingete a prendere questa mattina (se avete controllato t alle 7,30 si presuppone che, come ogni pendolare medio, anche voi viaggerete all'ora di punta) conterrà almeno 100 corpi, che fanno un bel radiatore da 10 KW sempre acceso, d'estate e d'inverno.
Casi pratici

Caso t>20°: la T-shirt (o qualcosa che le si avvicini molto, tipo abitini leggerissimi svolazzanti per le pupe o canotte per i bulli) è l'unico capo di abbigliamento permesso per la zona dalla cintola in su.  In caso contrario preparatevi a sopportare le pene dell'inferno. Se ricordate la ancora premessa 4, vi renderete facilmente conto che qualsiasi cosa oltre la maglietta è di troppo. Non contate sul supporto di aria condizionata o finestrini, sarebbe come precipitare da sessanta metri d'altezza facendo affidamento sulla suola ammortizzante delle vostre Nike. Se avete, come me, problemi di etichetta (fate un lavoro in cui è necessario indossare una divisa, sia essa una tuta da operaio o un completo con giacca e cravatta) organizzatevi: lasciate tutto quello che potete in ufficio o in fabbrica, cambiatevi lì appena arrivate e spogliatevi prima di andare via. Ne va della vostra sopravvivenza.

Caso 12°<t<20°: T-shirt + camicia. Tranquilli. Ricordatevi del termosifone da 10 KW sempre acceso e aggiungeteci che appena t va sotto ai 20° ci sarà la gara a chiudere ermeticamente finestrini e oblò per paura degli spifferi e dei colpi di freddo sempre in agguato. Se vi state chiedendo se soffrirete il freddo durante i pochi minuti di attesa alle fermate esterne, sappiate che tre minuti di leggero fastidio valgono bene la salvezza dalla sofferenza una volta a bordo. Per quanto riguarda i tragitti a piedi, tenere un passo veloce vi terrà caldi a sufficienza per resistere anche alle temperature minime del caso in questione.

Caso 7°<t<12°: T-shirt + camicia + giacca light (intendo giacca dell'abito o giubbino sfoderato, dimenticate roba imbottita o pelosa). Per le motivazioni si riporta al caso precedente.

Caso 1°<t<7°: Avete il permesso di aggiungere all'abbigliamento del caso precedente un gilet di lana o sostituire la giacca light con qualcosa di più consistente, tipo giacca a vento leggera. Sono inoltre ammessi guanti, sciarpa e cappello, soprattutto per chi, come il vostro V.O.M.I.T.I. con la tessera numero Uno, soffre di canizie precoce ed espone la glabrità del proprio cranio alle intemperie. In nessun caso voglio vedervi con piumini trapuntati tipo omino michelin o parka con cappucci in pelo di marmotta che farebbero sudare un esquimese. Dovreste vergognarvi solo per averci pensato. Guardate sempre con disprezzo chi indossa capi antartici: sicuramente non vi trovate di fronte a veri V.O.M.I.T.I.

Caso t<1°: difficile che questo caso si presenti nelle zone temperate che fanno da ecosistema alla maggior parte degli attuali lettori di questo blog; sono tuttavia consapevole delle potenzialità di espansione  verso ogni latitudine della mia platea; pertanto sappiate, voi aspiranti V.O.M.I.T.I. delle regioni fredde, che sono permessi piumini corti non troppo imbottiti, da indossare rigorosamente sull'accoppiata standard T-shirt e camicia, senza strati intermedi.
E ricordate: la dignità prima di tutto.

Postille

Postilla ai casi pratici: se c'è qualche pignoletto che mi scrive che non ho affrontato il caso t=20° (o t=12°, o t=7°, o t=1°) giuro che mi metto a gridare come una pazza.

Postilla generale: avete appena finito di leggere il Capitolo Uno delle Regole di sopravvivenza per viaggiatori metropolitani. Per quanto riguarda il Capitolo Due, non ci contate troppo: se viene viene, se no, fatevene una ragione.

giovedì 10 ottobre 2013

Città o campagna? Un esperimento sociale

Ebbene sì, sono un cittadino. Nel senso letterale di chi ha impostato la propria vita attorno al quel luogo geografico identificato nel sussidiario di mia figlia come metropolitano. Paradossalmente, sempre più spesso quando ci si incontra tra di noi cittadini si parla di come sarebbe bello, liberatorio, rigenerante, ecocompatibile, antropomorfico, giusto, equilibrato vivere in campagna. O perlomeno in un piccolo centro a misura d'uomo donna e bambino come quelle decine di delizioooosi paesini che ancora costellano la penisola e la regione dove risiedo. Chiacchierando amenamente di tali questioni si tirano spesso in ballo, oltre alle misure ed ecologie di cui sopra, anche le propensioni dei singoli, e prima o poi viene sempre fuori quello che dice sì, è più a misura d'uomo, ma oltre a questo c'è di base che a me la campagna il paesino la natura mi piacciono, lì sarei me stesso, io non sono nato per vivere in città. 
E' a quel punto che di solito mi chiedo: ma come fate a sapere per cosa siete nati? Come riuscire a capire se la scelta che fareste dipende da inclinazioni personali separate dai vincoli materiali? Tradotto: non vale dire preferisco la città perché sono vicino al lavoro, o perché la mia famiglia è qui, e le scuole, i cinema, i teatri e tutto il resto, oppure preferisco la campagna perché di mestiere scrivo biografie e non voglio essere distratto dai clacson; io voglio analizzare i vostri desideri reali, le vostre inclinazioni autentiche, il vostro "io" più profondo. Mica sto qui a infilare collanine.
Qualche giorno fa parlavo di queste e altre sciocchezzuole con tre amici e ho tirato fuori quella vecchia questione degli esperimenti che Federico II metteva in pratica con l'intento di individuare quale fosse il linguaggio naturale dell'uomo: il buontempone sceglieva a caso tra i suoi sudditi alcuni neonati e li rinchiudeva in una prigione completamente isolata dal mondo, concedendo loro solo sostentamento materiale (cibo e acqua) e impedendo in maniera categorica a chi si occupava dei piccoli di fornire loro stimoli affettivi, parole, contatti, sguardi, persino semplici gesti. L'intento del bravo sovrano era capire che linguaggio avrebbero sviluppato spontaneamente quei pargoli, una volta eliminati tutti i vincoli culturali e le influenze esterne. Scoprire una volta per tutte qual'è la preferenza linguistica dell'umanità, l'idioma innato. Bell'obiettivo. Peccato che quei bimbi, essendo esseri sociali, non svilupparono alcun linguaggio naturale, e non ebbero nemmeno il tempo di porsi il problema, visto che si lasciarono morire di tristezza entro poche settimane.
Vogliamo sapere quali sono le nostre preferenze reali? Vogliamo scoprire una volta per tutte cosa sceglierebbe ogni elemento di questo consesso di quattro uomini se posto di fronte al dilemma città-o-campagna? Urge un esperimento, ho esclamato. E per fare un esperimento serve una cavia. 
Tipica figlia di vent'anni che, interpellata,
si accinge a un'educata risposta.
I tre esemplari di cittadini che avevo attorno nel momento della mia decisione si sono subito dimostrati recalcitranti: quando ho parlato di esperimenti e cavie Ugo ha fatto finta di ricevere una telefonata e mentre rispondeva col labiale ci diceva tengo-la-suoneria-bassa, Lillo guardava in basso, Michele bofonchiava che lui, in quanto personaggio virtuale, inventato al solo scopo di riempire qualche riga di un post in se stesso abbastanza vuoto, non poteva essere oggetto di un esperimento reale .
Non avendo a portata di mano alcun volontario adulto, e vista l'esperienza fatta otto secoli fa dallo Svevo, mi sono affrettato a escludere dalle ipotesi anche i minori che avevo a disposizione (oltretutto sarebbe quanto meno tardivo isolare le mie figlie per una quindicina d'anni e poi piombare nella loro cameretta, fare slalom tra gli escrementi e chiedere vi-piace-più-la-città-o-la-campagna, come minimo mi beccherei un verdoniano "a stronzo, punto esclamativo"). 
A quel punto non mi rimaneva che utilizzare un soggetto probabilmente meno gradevole esteticamente rispetto a una cavia ma che se non altro ritengo sufficientemente duttile e gestibile: me stesso.
Il quesito da sbrogliare era: qual è il paesaggio con cui vorrei incorniciare le mie giornate, al netto dei vincoli di cui sopra? Strade e palazzi o campi e mulattiere? Dove punta la mia più profonda indole, il mio puro senso estetico, il mio "io" reale?
Cavie. Che carine.
Quella sera, congedati gli ospiti pusillanimi e depennati i loro riferimenti dalla mia rubrica telefonica, ho organizzato l'esperimento in questi termini: ho preso il soggetto (non prima di aver indossato dei robusti guanti in lattice), l'ho ripulito da tutti gli orpelli che potrebbero influenzare le sue scelte: famiglia, lavoro, aspettative sociali, ambizioni, influenze di terzi, amicizie. L'ho spogliato anche dei vestiti. Ho ottenuto un esemplare asettico, esattamente nelle stesse condizioni in cui si presenta la domenica mattina quando esce per correre (tranne per il trascurabile particolare che indossa scarpe e calzoncini): niente orpelli né vincoli che lo influenzano, completamente libero di scegliere i percorsi e il paesaggio di sottofondo per le successive due ore.
(Nota intertestuale: una situazione di totale libertà di scelta il soggetto ce l'avrebbe anche nelle rare serate libere dedicate al cazzeggio, ma in quei casi decide di esprimere la propria libertà costringendola in angusti limiti, come a dire il massimo della libertà di scelta è scegliere di non scegliere: solito locale, solito tavolo, solita consumazione).
Il soggetto di cui sopra, dicevamo, ha un ventaglio ampio di alternative da cui attingere quando esce per correre, e piena libertà di elezione: dalla campagna più impervia, alla prima periferia, al centro urbano più sfacciato; dal paesaggio silvestre di Villa Ada, con sentieri sterrati e celati che farebbero perdere l'orientamento a un boy scout; alla ginnica e modaiola Villa Pamphili, con i suoi percorsi misurati e gli spogliatoi; alla borghese Villa Borghese, ricamata da ampi viali costeggiati da statue marmoree; alla pista ciclabile del lungotevere nord, regolare e veloce; a quella del lungotevere sud, un po' più urbana e con tratti da media periferia; fino al percorso interamente urbano e turistico "der centro de roma". È in questo caso che la libertà di scelta è piena di esprimersi verso le proprie inclinazioni.
E che ti combina il soggetto? Svincolato da lacci e lacciuoli ti snocciola un tragitto che tocca Piazza del Popolo, Via del Corso, Piazza Venezia, Fori Imperiali, Colosseo, Circo Massimo, Lungotevere dei Tebaldi, San Pietro. Non so se mi spiego: il massimo dell'espressione metropolitana. Il massimo del caos (pur stemperato dal fatto che sono le sette di mattina di domenica). Con buona pace del percorso natura.
Ecco perché sono un cittadino.

mercoledì 3 luglio 2013

Ansiosi e dormiglioni


Ero lì che leggevo di uno scrittore americano che, terrorizzato da tagli, correzioni e dalle altre operazioni di editing che avrebbe potuto subire il suo enorme manoscritto, e con la subconscia ansia causatagli dalle regole ferree impostegli durante l'infanzia dalla madre insegnante di grammatica prescrittiva, scrisse una nota precauzionale alla propria casa editrice:

Al correttore di bozze:
Ciao. P. C.: le seguenti caratteristiche non-standard presenti nel ms. sono scelte volute, e qualunque Vostra correzione verrà annullata dall'autore:
- virgolette semplici per indicare dialoghi & titoli, e virgolette in coppia all'interno - inversione dell'ordine consueto. (1)
- nomi comuni e verbi fraseologici in maiuscola come Sostanza, Malattia, Entra Dentro ecc.
- neologismi, catacresi, solecismi e infrazioni sintattiche nelle sezioni che riguardano Minty, Marathe, Antitoi, Krause, Pemulis, Steeply, Lenz, Orin Incandenza, Mario Incandenza, Fortier, Foltz, J. O. Incandenza sr, Schtitt, Gompert.
- congiunzioni multiple all'inizio di proposizioni principali.
- virgole prima di preposizioni posizionate alla fine di una frase.
- trattini per formare termini composti.
- lacerti di frasi a seguire frasi eccezionalmente lunghe.
- suddivisione in paragrafi incoerente, e paragrafi estremamente lunghi.

E mi chiedevo quanto potrebbe aver sofferto lo stesso scrittore se fosse in qualche modo venuto a conoscenza dei refusi disseminati nella traduzione italiana (la maggior parte probabilmente attribuibili non all'autore ma all'editing, e comunque che pretendete dalla prima traduzione mondiale in ordine di tempo di un tomo di tal fatta?).
E poi passavo senza alcuna apparente soluzione di continuità a considerare che, se ti trovi fuori casa, una chiesa può rappresentare il luogo ideale per correggere bozze (ma anche per scrivere, leggere, pensare e riposare al fresco d'estate e al caldo d'inverno), e il bello è che nessuno ti chiede conto della tua presenza e del tuo silenzio (2), e che anche il Mc Donald riesce ad offrire questi vantaggi, se sei disposto a cedere una buona dose di silenzio e tranquillità che solo il tempio ti può garantire per ottenere un bagno accessibile e pulito.
Ero lì che valutavo i pro e i contro dello scambio quando la mia attenzione venne attirata da un verso gutturale a bassissima frequenza, come un russare, anzi era proprio uno che russava, e mi accorsi che il cinese che avevo di fronte nel vagone della linea per Rebibbia si era addormentato in piedi, appena appoggiato con la schiena alla porta scorrevole; e niente, mi chiedevo come fanno 'sti cinesi a dormire in qualsiasi posto e in qualsiasi posizione, sarà che hanno un gene-del-sonno-qui-dove-mi-trovo, boh.

Basilica dei SS Ambrogio e Carlo
(foto da Wikipedia)
Note:
(1) mi rendo conto di quanto sia superficiale l'attenzione che la scuola italiana riserva all'insegnamento della punteggiatura. Per quanto posso testimoniare dal corso dei miei studi, non ricordo nemmeno un accenno all'uso -ormai diffusissimo, e non solo nella letteratura anglosassone- dei trattini e ne ricordo uno sfuggevole a quello delle virgolette; e dalla quotidiana lettura di scritti di ogni tipo (mail, post, articoli, sintesi, analisi, presentazioni) mi appare palese come l'importanza di un corretto uso della punteggiatura sia quantomeno sottovalutata.
E ora mi aspetto una serie di commenti a correzione degli errori di punteggiatura che troverete nel presente post.
(2) la Basilica dei SS Ambrogio e Carlo, su via del Corso, costituisce un eclatante esempio di quanto affermo: attraversare i tre metri dell'ingresso e passare dai rombi, le sirene, il vociare e la calca umana del centro di Roma nel periodo dei saldi estivi al frescolino e alla quasi assoluta quiete della navata centrale è una sensazione impagabile. E lo spazio per sedersi in tutta tranquillità abbonda. La Basilica dei SS di cui sopra si presta ottimamente alla bisogna anche perché, non custodendo opere d'arte di richiamo internazionale, non è frequentata da sciami di turisti algidi e sudaticci (a meno che non conoscano a menadito i lavori di  Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone). Provateci: effetto fuga garantito.

venerdì 21 giugno 2013

Effetto treno

Non so quanti di voi, in determinate fasi della vita, per vicissitudini causate da difficoltà logistiche, da verifiche sull'impatto ecologico delle proprie scelte, da calcoli dei costi connessi agli spostamenti o, semplicemente, perché poco avvezzi alla guida di mezzi di locomozione privati, abbiano avuto occasione di muoversi con gli autobus urbani.
Quelli tra di voi che lo hanno fatto, probabilmente si saranno accorti che alle fermate i mezzi pubblici su gomma sovente sopraggiungono in serie, nel senso che per un bel po' non ne passa nessuno e poi ne passano due o tre uno dietro l'altro. Come le onde oceaniche. Ai fini dell'analisi che segue, permettetemi di chiamare questo curioso fenomeno: "effetto treno".
Se vivessimo in un mondo ideale (o a Zurigo) le partenze degli autobus dal capolinea sarebbero intervallate regolarmente, il traffico sarebbe uniformemente distribuito su tutto il tragitto, come pure sarebbe costante il tempo di attesa dei mezzi ai semafori e agli stop. Inoltre le persone in attesa sarebbero equamente distribuite su tutte le fermate e approderebbero alle stesse in un flusso continuo e regolare, come la soluzione fisiologica nell'ago di una flebo. In questo mondo ipotetico (e a Zurigo) l'effetto treno non esiste.
Se una qualsiasi delle meravigliose caratteristiche qui sopra elencate viene meno, il sistema generale subisce una perturbazione. Io ipotizzo che l'effetto treno sia causato da un disallineamento qualsiasi delle regolarità sopra descritte, e che questa "perturbazione iniziale del sistema" venga amplificata enormemente dal fatto, misurabile, che il tempo di sosta del bus alla fermata è direttamente proporzionale al numero di persone che salgono o scendono.
Se un bus non passa da un po' (per una qualsiasi delle perturbazioni alle ipotesi del mondo ideale: ad esempio un'auto parcheggiata in seconda fila che fa perdere tre minuti a uno degli autobus di una determinata linea, mezzo che chiameremo A), alle fermate successive si accumuleranno più persone in attesa. Ciò significherà, all'arrivo di A, tanta gente che deve salire (e scendere) e che farà perdere tempo tra vari "se non mi fa prima scendere poi lei non può salire" o "più avanti c'è spazio" o ancora "ma qui siamo nel terzo mondo": quindi il mezzo A, che all'inizio portava solo un lieve ritardo, dovrà sostare più a lungo, e ci saranno buone probabilità che l'autobus seguente (che a sorpresa chiameremo B, e che è partito alla cadenza programmata dal capolinea) riduca progressivamente la sua distanza da A. Di contro B arriverà alle fermate dopo che è passato A, che ha raccolto la maggior parte delle persone in attesa. Pertanto avrà minori tempi morti alle fermate (a volte anche zero) e maggiori probabilità di raggiungere A alle fermate successive. Una volta che B raggiunge A, non potendo sorpassarlo (1), terrà questa posizione a treno per tutta la durata del tragitto.
Stimo che in momenti particolarmente affollati i tempi di attesa alle fermate si allungano talmente tanto che in sette/otto fermate dal capolinea un autobus viene raggiunto dal successivo.
Visto che una linea urbana dalle mie parti prevede circa quaranta fermate, se ne deduce che A percorrerà gran parte del viaggio in una lunga e festosa fila con i vari B, C, e forse anche D, con un effetto treno di sicuro impatto scenografico ma dalle conseguenze devastanti sulla già fragile psiche dell'utente medio (2).

Note:
1) Questa regola di divieto di sorpasso tra autobus di linea non so se sia scritta o sia una semplice consuetudine, ma pare che nessun romano possa raccontare di aver visto due mastodonti arancioni che si fanno "lo sgarbo" senza essere sospettato di essere un cazzaro.
2) Ok, lo ammetto, non si tratta di un'analisi geniale che rivoluzionerà il sistema dei trasporti urbani, ma sappiate che ci ho pensato parecchio prima di scrivere sta cosa qua. Ognuno arriva dove può.

martedì 18 giugno 2013

I cento passi



Il mio quotidiano tragitto casa-ufficio prevede nell'ordine: bus, metro A e metro B (viceversa quello ufficio-casa). Tra un mezzo di trasporto e il successivo, percorro dei tratti a piedi, in tutto circa duemilacento passi, durante i quali sono costretto giocoforza a interrompere la lettura e a stare un minimo attento a dove metto i piedi. Di solito ne approfitto per sollevare lo sguardo e spaziare su paesaggi urbani e scene di varia umanità.
I cento passi del titolo sono quelli che vanno dalla fermata del bus nei pressi di piazzale degli eroi fino all'incrocio con via giulio venticinque, molto interessanti da un punto di vista antropologico/faunistico.
A mo' di esempio descrivo quelli di ieri.
Prime trenta falcate con passaggio davanti al grosso edificio che ospita una scuola media pubblica, l'anno scolastico è finito ma davanti all'ingresso sostano cinque o sei gruppetti di adolescenti in attesa di entrare per qualche attività estiva, raccolti rigorosamente per etnia, senza alcuna commistione: i neri stanno coi neri, gli asiatici con gli asiatici, i romani tra di loro; dieci passi dopo, da una smart con gli interni in pelle rossa esce una quarantenne anch'essa rossa, pluriaccessoriata, fisico prorompente, abitino svolazzante, iphonecinque all'orecchio e borsa fendi, attrae gli sguardi degli astanti nell'officina per scooter proprio di fronte; ancora diciotto passi e una donna della stessa età ma dalla pelle decisamente più scura fruga in un cassonetto aiutandosi con un uncino ricavato da una vecchia gruccia per abiti; ventidue passi più in là sosta il camioncino per la raccolta sperimentale dell'umido, una coppia matura apparentemente dello stesso ceto sociale della rossa lascia diligentemente il proprio sacchetto con i resti di una cena basata (ci scommetterei dieci a uno) sulla dieta dukan; i successivi venti passi sfilano lungo due bancarelle tenute da pakistani, la prima vende cenci "tutto a 5 euro", la seconda jeans femminili attillatissimi esposti su manichini ipersexy.
Sta a voi unire i puntini e capire cosa ne esce fuori. E ricordatevi che il superfluo esiste sempre unicamente per farsi prendere a calci in culo.

mercoledì 12 giugno 2013

Storia di panza e di sostanza

E' successo qualcosa, stasera.
Uno di quegli eventi che pare disorientare il sistema di valori al quale credevi di aver aggrappato la tua vita. O meglio. Che dimostra come il tuo sistema di valori non è l'unico ipotizzabile, che la lista delle priorità dipende da troppe variabili, dalla cultura, dalle esperienze, dai geni, dal ceto sociale, dal sesso, dall'età, dall'etnia.
L'evento è accaduto sulla metro, crocevia e amalgama di tutta quella roba che ho elencato qualche riga sopra, nonché microcosmo adatto a esperimenti con cavie umane. 

Alla fermata di Circo Massimo solite procedure di sbarco-imbarco: le porte si aprono, gente scende, gente sale, le porte si chiudono. Tra la fine della fase tre e l'inizio della quattro, una coppia di ragazze rom si accingono a salire a bordo, avranno 35 anni in due, la prima si infila dentro agilmente, la seconda è incinta di almeno otto mesi e prova a seguire la prima, ma la fase quattro è in pieno svolgimento, e le porte stanno già scorrendo sui propri binari. Ecco che la ragazza col pancione, avendo già mezzo corpo dentro (il pancione) e mezzo fuori (il resto) prova a opporsi alla pressione meccanica che le porte stanno già facendo sul feto e sul suo involucro aiutandosi con la forza delle proprie manine di sedicenne. 
Ora, io, nella mia decennale vita di pendolare metropolitano, quell'esperienza di oppormi alla fase quattro con le mie forze di maschio quarantenne per nulla flaccido, anzi, modestamente, in discreta forma, l'ho fatta talvolta, e vi comunico che non è roba da poco: non è sufficiente appoggiarsi dolcemente come alle porte dell'ascensore, qui c'è da fare forza, e parecchia. E lei ci riesce così, con la consistenza gommosa del feto che porta in grembo e con le proprie manine di sedicenne. Rischiando. Forte. (Il tutto dura talmente poco tempo da non dar modo a nessuno degli astanti, me compreso, di intervenire). E alla fine, quando sente le porte che cedono e con un cigolio si riaprono, semplicemente sorride, senza nessun ansia sul viso, come si sorride a una piccola vittoria per una qualunque scommessa come tante altre nella vita. 
Immagino capirete che questa scena ha lasciato il segno in un osservatore come il sottoscritto pennuto, che pone il benessere della prole all'incontrastato primo posto in una ipotetica scala dei valori fondamentali della vita. Ancora di più perché questo osservatore credeva di avere compreso che il fondamento della sopravvivenza della specie, ben cablato all'interno delle pieghe aminoacidiche di tutti gli esseri viventi, fosse proprio la tutela della prole, a qualunque costo.Forse esagero, e questa storiella è semplicemente esemplificativa dell'incoscienza di un particolare individuo, per di più nell'età adolescenziale, e non del minor valore che un'intera etnia dà a una vita che nasce rispetto ad altre (pensate che ci sono etnie che mettono in discussione pure la pillola del giorno dopo); né tantomeno è un segnale di come alcuni istinti di conservazione della specie stanno via via sparendo facendoci prevedere un breve futuro di edonismo senile.
Fatto sta che il disagio lo sento ancora attaccato addosso. 
Ecco, mi chiedo (e vi chiedo) se questa sgradevole sensazione nell'osservare un completo sovvertimento dei propri valori di base in un individuo ben collocabile all'interno di un gruppo diverso dal proprio non possa chiamarsi "razzismo".

giovedì 14 marzo 2013

Ancora sui vantaggi del furto

Oggi fa una settimana che mi hanno rubato lo scooter; da allora nei movimenti da e verso il lavoro e nei i trasferimenti connessi con la giornata feriale media (scuola bimbe, piccole spese, riunioni di lavoro fuori sede, ecc.) utilizzo esclusivamente i mezzi pubblici e i miei onorati piedi. Ho raccolto sufficienti dati per farvi sapere come sta andando.

Aperta parentesi. Mi hanno fatto notare che il termine "motorino" utilizzato nel precedente post a designare il mezzo che mi è stato fraudolentemente sottratto, un Liberty 150, era alquanto impreciso, e denotava l'appartenenza del sottoscritto ad un generazione cresciuta versando miscela al 2% nei poco capienti serbatoi di Ciao e Sì Piaggio. Me ne scuso. Da oggi per indicare un motociclo di piccola cilindrata utilizzerò il più moderno "scooter". Va bene così, pignoletti quarantenni dei miei cabasisi? E chiusa parentesi.

La settimana trascorsa è stata utile per la verifica delle stime dei tempi di trasferimento tramite misure effettive, e mi ha fornito l'occasione di meravigliarmi per l'accuratezza delle prime grazie ad un congruo campione delle seconde. Le stime più accurate erano quelle relative ai tratti a piedi, più che altro per due motivi: primo, un buon runner conosce sempre la propria andatura, secondo, quei tratti non sono inficiati da Tempi di Attesa Mezzi Pubblici su Ruote (in seguito TA), sempre di difficile valutazione.
Di seguito uno schema dei miei percorsi usuali con l'indicazione dei tempi effettivi espressi in minuti. Non viene analizzato il tratto metro-ufficio in quanto rimane immutato rispetto a prima e non era sottoposto a verifica (anche quando avevo lo scooter, il mezzo veniva utilizzato per arrivare fino alla fermata della metro per poi proseguire con quella).


Percorso con bus a piedi con scooter
casa-scuola NA 4 4
scuola-metro 15 19 5
casa-metro 15 21 7





NB: i tempi "con bus" comprendono il tragitto a piedi da e per la fermata del bus (6 minuti), il tratto in bus (6 minuti) e una media di TA (3 minuti). I tempi "con scooter" comprendono le fasi propedeutiche all'utilizzo del motomezzo, quali apri il bauletto, infila i guanti, indossa il casco e fallo indossare ai passeggeri, richiudi il bauletto ecc., operazioni che, soprattutto nei tratti brevi, pesano molto sui tempi totali del viaggio. Questo fattore "preparazione", insieme al fatto che lo scooter, a differenza dei piedi, è tenuto a seguire i percorsi obbligati del traffico (tipo i sensi unici e i semafori), rendono uguali i tempi di percorrenza dello scooter e dei piedi nel tragitto casa-scuola.

Ora, già vedo le boccucce dei pignoletti di cui sopra che si aprono a facili considerazioni: Tacchino, come fai a sapere i tempi dei trasferimenti con scooter se tu uno scooter non ce l'hai più? Non mi dirai che li avevi presi prevedendo il furto e la tua successiva decisione di utilizzarli per un post? O non mi dirai (peggio) che quei tempi li stai stimacciando proprio ora mentre scrivi, con l'evidente incentivo a sovrastimarli per dimostrarci che la tua decisione di rinunciare allo scooter è ben ponderata?
A quei pignoletti io rispondo: fottetevi.

Analizziamo piuttosto i dati: non sussistono particolari problemi sul tratto casa-scuola, per il quale il nuovo status di pendolare appiedato non mi ruba nemmeno un minuto. Appare invece evidente come, nei tratti da e per la fermata della metro, la scelta tra aspettare il bus e avviarsi a piedi dipende esclusivamente da TA. Se TA è maggiore della differenza tra il tempo dello stesso tratto a piedi e 12 minuti (tempo di percorrenza con bus al netto di TA), allora conviene andare a piedi, altrimenti meglio aspettare il bus. Il problema è che TA è poco prevedibile. Alcune fermate del centro sono munite di palette elettroniche che informano su TA, ma da me non sono ancora arrivate. Esistono poi alcune modalità per furbofoni (Apps tipo Roma Bus o anche una visita al sito dell'Atac) dove vengono forniti con sufficiente accuratezza i minuti da aspettare, ma per ora le mie dotazioni tecnologiche non arrivano a tanto. Di solito mi organizzo in maniera empirica: se vedo che la fermata è vuota, ci sono buone probabilità che il bus sia appena passato, e che quindi ci sarà da aspettare più dei 3 minuti medi. In quei casi vado a piedi. Altrimenti provo ad aspettare 4 minuti (nel caso del tratto scuola-Metro) o 6 (nel caso del tratto casa-metro): se entro quelli non vedo stagliarsi un mastodonte giallo-arancione all'orizzonte, vado a piedi. La misurazioni dei giorni scorsi indicano inolte che TA varia nel corso del giorno, muovendosi da valori prossimi allo zero di mattina (quando le corse sono più frequenti e spesso con un breve scatto felino riesco a salire sui bus che scorgo in arrivo mentre mi avvicino alla fermata) fino ad un massimo di 5 o 6 minuti della sera. Oltre i 6 minuti non saprei dire, visto che come ho già detto superata quella soglia mi avvio a piedi.
E' sicuramente vero che i tempi con scooter in questi tratti medio-lunghi sarebbero minori, e che il vantaggio cresce nel tratto più lungo (casa-metro), arrivando ad un risparmio massimo di 14 minuti rispetto ad un percorso totalmente a piedi. Ma 14 minuti non sono molti se li confrontate con le ere geologiche o con i vantaggi di muoversi senza mezzi meccanici propri, vantaggi che per vostra comodità riepilogo:




La mia solita fermata del bus

  • Risparmio di denaro (tra assicurazione, bollo, carburante, manutenzione, accessori arrivavo a circa 800 euro l'anno. A questi va aggiunto l'eventuale ammortamento dell'acquisto del mezzo, che nel mio caso era prossimo allo zero, ma in caso di scooter nuovo fiammante può arrivare anche a mille euro l'anno)
  • Meno incidenti stradali
  • Meno litigi per questioni di traffico
  • Nessun impatto ecologico aggiuntivo per la comunità
  • Allenamento mattutino e serale con cardio walking (in caso di tratti completamente a piedi)
  • Possibilità di utilizzo migliore del tempo: posso ascoltare la radio nei tratti a piedi recuperando il tempo completamente perso della guida, posso telefonare o inviare sms nei tratti in bus (tratti durante i quali l'ambiente scarsamente confortevole e la brevità del percorso non consente letture più impegnate)
  • E, last but not least, notevole interesse faunistico della mia solita fermata del bus.

Conclusione uno: viva l'emancipazione dai mezzi privati.
Conclusione due: anche se avessi raggiunto la conclusione uno qualche tempo fa, non sarei comunque mai riuscito a sbarazzarmi di un motorino scooter perfettamente funzionante. Ergo, ringrazio pubblicamente lo sconosciuto che mi ha aiutato in questa evoluzione verso la libertà, anche se avrei preferito l'utilizzo di una efficace comunicazione interpersonale rispetto al furto con scasso.
Un'ultimissima considerazione. Come vi sarete probabilmente accorti, questa emancipazione dai mezzi meccanici privati mi elettrizza anzichenò, e fino a ieri non me ne riuscivo a spiegare completamente il motivo.
Poi stamattina l'ho capito: organizzare spostamenti basati solo sui mezzi pubblici e sui piedi mi riporta indietro di vent'anni, quando giravo l'Europa in treno e in autostop armato solo di un biglietto ferroviario Inter Rail, di scarpe comode e di un pollice sfacciato.
Se sostituisco "Roma" a "Europa" e "tessera ATAC" a "Inter Rail" ecco che quel senso di libertà pare riaffacciarsi.
Come dite? Durerà poco? Può darsi. Intanto godo.

giovedì 7 marzo 2013

Logistica nuova, vita nuova



M'hanno rubato il motorino. Un vecchio catorcio di dodici anni tenuto insieme dal nastro telato (vi giuro, davvero poco appetibile, ve ne avevo già parlato qui e quiera nel parcheggio apposito insieme a altre decine di esemplari in miglior forma e hanno scelto lui, inspiegabile) ma tant'è. Un po' mi ha dato fastidio, dentro c'erano tre caschi semi nuovi di cui uno da bimbo e qualche ricordo, e poi mi tocca pure la rottura di passare dai carabinieri per la denuncia.

Strano che l'espressione più triste sia stata quella disegnata sui volti delle mie bimbe al sentire della notizia. Per i marmocchi le situazioni della vita sono per sempre immutabili, si affezionano ai luoghi e agli oggetti, anche i più insignificanti, con un attaccamento morboso. Fatto sta che una mi ha detto che non avrebbe voluto per nessuna ragione un nuovo motorino in sostituzione del vecchio, che nessuno avrebbe retto il confronto, mentre l'altra mi ha proposto di rubarne uno a mia volta.

Per quanto mi riguarda al fastidio e alla meraviglia del primo momento (non rabbia, meraviglia) si è in breve tempo sostituita una sensazione come di catene rotte, di membrana sfondata, di necessario nuovo ordine delle cose. Per un breve secondo mi è passata per la testa l'idea di comprarne un altro ma ho scartato l'ipotesi immediatamente: ogni tanto un evento traumatico può dare lo spunto per valutare le cose a tutto tondo, e capire se il processo che stai seguendo è quello giusto. Forse di questo evento se ne può approfittare, forse è un'opportunità di cambiamento.

Mi sono fatto qualche calcolo (io sono fatto così, un po' è deformazione professionale, un po' educazione contadina, non me ne vogliate): assicurazione 300, benzina 250, con il bollo, la manutenzione e qualche accessorio da sostituire si arriva facile a 800 euro l'anno. Non è una fortuna ma a me non fanno schifo. E poi tra un paio d'anni avrei comunque dovuto sostituirlo. Questi costi erano compensati ovviamente da alcuni vantaggi, che alla fine si possono riassumere in due punti:

  1. Lo utilizzavo per gli spostamenti da casa alla fermata della metro più vicina e viceversa (2,4 km a tratta, ca 5 minuti) per poi andare in metro fino in ufficio.
  2. Nella tratta di ritorno a volte mi fermavo in un Todi's vicino o in frutteria per fare un po' di spesa infrasettimanale
Ora dovrò pianificare alcuni cambiamenti per limitare al massimo i fastidi derivanti dal nuovo paradigma e ho pensato ai seguenti:


  1. Per fare i 2,4 km potrei prendere l'autobus (4 minuti medi di attesa + 6 minuti di percorso  + 6 minuti di tratti a piedi da e per la fermata dell'autobus, in tutto 16 minuti) o farli a piedi (diciamo 20 minuti a passo veloce, ancora da cronometrare) in caso di voglia e forma. Al fine di rendere più agevoli gli spostamenti by foot, la mattina infilerei le mie comode e performanti scarpe da running, per poi cambiarle una volta arrivato in ufficio con un paio di urbanissime Clarks lasciate lì apposta, che vanno bene in qualsiasi occasione.
  2. Potrei organizzarmi diversamente con la spesa, tipo concentrarla di più sul fine settimana ed diminuire la necessità di aggiunte, e portare sempre con me una di quelle borse di nylon pieghevoli e accartocciabili, in modo da potermi fermare a comperare latte e frutta nel percorso di ritorno.
D'altro canto possiedo già un abbonamento annuale ai mezzi pubblici che utilizzo quanto più possibile, e che potrei utilizzare ancor più intensivamente senza nessun costo aggiuntivo da sostenere per la mobilità.
Facciamo così: provo un paio di settimane e vi faccio sapere come va. Secondo me sopravvivo. E forse, se un giorno un carabiniere mi dovesse telefonare per dirmi: buona notizia, abbiamo ritrovato il suo motorino, chissà che io non risponda: ah sì? tenetevelo.

domenica 23 dicembre 2012

Solo qualche giorno di ferie forzate


Prototipo del pendolo galileiano,
a Santa Maria degli Angeli
In periodo di crisi le aziende raschiano il barile, e nel bilancio di una elefantiaca come quella che mi dà da mangiare, il cosiddetto accantonamento per ferie maturate e non pagate può raggiungere cifre stratosferiche e costituire il sottile diaframma tra utile o perdita.
Ed ecco che trovarsi sbattuto a forza subito prima di Natalefuori dalle rassicuranti quattro mura che ti circondano migliaia di ore all'anno con l'unico scopo di consumare gli ultimi giorni rimasti tra quelli contrattualmente pattuiti come riposo ma che durante l'anno non sei riuscito a pianificare in maniera più proficua, diventa qualcosa più che una lontana prospettiva, e se a questo aggiungi che le figlie sono a scuola e la moglie al lavoro, lei che le ferie le ha gestite meglio, ne risulta che ti trovi a gironzolare da solo per la città. E Roma, che pareva non aspettare altro, ti si para avanti discinta e disponibile come un'olgettina.
Bastano pochi minuti per riportare alla mente i posti che avevi sempre accennato di voler di nuovo vedere e che ora puoi farlo davvero, e cominci l'attacco ai bastioni di questo turismo in casa propria mirando dritto alle Santa Maria, da queste parti ce ne sono in ogni angolo: puoi cominciare con Santa Maria degli Angeli che ospita la meridiana del Bianchini e il prototipo del pendolo di Galileo; continuare con Santa Maria della Vittoria con la passione eroticamente marmorea di Santa Teresa trafitta ripetutamente dalla freccia di fuoco dell'angelo; soffermarti almeno mezzora a Santa Maria del Popolo con la cappella Cerasi in fondo a sinistra, stesse coordinate geografiche dei servizi igienici nei bar di periferia, ma questa con i due Caravaggio e il Carracci costituisce forse i sei metri quadri più strabilianti della storia dell'arte; puoi concludere con Santa Maria della Pace e la tribuna ottagonale del Sangallo. Poi forse ti riesce di aggiungere una capatina o poco più a San Luigi dei Francesi, che per azzeccare i pochi minuti di apertura devi fargli la punta per mezza giornata, ma vieni premiato nell'attesa dai Caravaggi, che qui ne becchi tre, e per ultimo una visita al Pantheon chi te la nega, potresti rimanere a rimirare la cupola più bella del mondo senza fiato a testa in su per tutto il tempo che ci vuole, o meglio fino a quando ti regge la cervicale.
Alla fine te ne ritorni a casa pensando che questa cosa della crisi e delle ferie forzate meno male che c'è stata e l'anno prossimo quasi quasi le ferie le pianifichiamo in maniera inefficiente come stavolta, in fondo che male c'è.

Caravaggio, Vocazione di San Matteo,
San Luigi Dei Francesi

martedì 23 ottobre 2012

Arma non convenzionale


Quando hai deciso di parcheggiare il motorino lì, proprio sul lato destro dello stretto passo carrabile con cui si accede al cortile interno dell'edificio di fronte alla scuola, pensando di sbrigartela in due minuti, giusto il tempo di accompagnare la quattrenne, eri consapevole che sarebbe bastato che un'altra auto avesse occupato il lato sinistro per rendere impossibile il transito. Ma hai subito soffocato le ansie pensando ok, se dovesse succedere non sarà stata colpa mia, ma della seconda auto, sarebbe lei a bloccare l'uscita, non io, anche se nel retrobottega del tuo cervello già si affacciava la certezza che lo sventurato che fosse rimasto bloccato da una morsa moto/auto, non conoscendo lo svolgersi cronologico degli eventi, avrebbe avuto diritto di prendersela con te come con il proprietario dell'auto, e già inconsapevolmente una manciata di enzimi nel tuo sistema linfatico si preparava a liberare al momento opportuno l'adrenalina necessaria alla singolar tenzone.

Ecco, sconfitto più
o meno da questo (fonte)
I tempi a scuola si dilungano oltre i due minuti previsti, sai com'è, la chiacchiera con un genitore, un bacio alla piccola, un altro dài ma questo è l'ultimo davvero, poi la fase flemmatica di avvicinamento al motorino, ti infili con calma il casco, controlli un sms, ovviamente non ricordi nulla dei passaggi mentali avvenuti durante la fase di parcheggio, fino a quando con la coda dell'occhio intercetti una grossa Toyota proprio sul lato sinistro del passo carrabile, il famigerato sito X che avrebbe chiuso il transito, e ritrovi un senso alle tue paure. Istintivamente giri lo sguardo verso l'ingresso del cortile interno, e vedi una vecchia Citroen con il muso affacciato come se volesse uscire, il motore spento ma al posto di guida un individuo che aspetta chissà da quanto e ti guarda calmo, un trentenne di colore, distinto e serafico quel tanto che basta a farti capire che non ci sarebbe stato il tipo di battaglia che immaginavi, che l'adrenalina poteva stare al suo posto (e meno male, sarebbe stato difficile trovare armonia tra lei, l'adrenalina, e la consapevolezza di essere in torto, forse torto condiviso e parziale ma sempre torto), un sorriso Giocondesco sulle sue labbra senza alcunché di provocatorio, solo la serenità di chi ha tempo per aspettare e lo fa brandendo la sua arma non convenzionale, quel sorriso inscalfibile di chi sa di aver già vinto.
E mentre ti profondi in scuse non richieste, concludendo la serie con un infantile Giuro che la prossima volta starò più attento, ti rendi conto di aver appena subito la tua più cocente sconfitta da traffico urbano, trafitto da un'arma non convenzionale.
Ma non erano proibite dalla Convenzione di Ginevra?

giovedì 11 ottobre 2012

Crescita asimmetrica

Genitori e figli: in una situazione normale ci si aspetta una crescita equilibrata, i figli che imparano qualcosa sul mondo esterno alla famiglia, sul posto che occupano, sulle aspettative che cominciano a nutrire, i genitori dal loro canto che si migliorano su come affrontare la responsabilità dell’educatore, come capire le esigenze dei nuovi piccoli umani, come venire incontro ai loro problemi, alle loro insicurezze. Poi però ci sono casi in cui si coglie all'istante lo stridore e l'asimmetria tra le evoluzioni dei due gruppi. 
Tipo l'altro giorno a Termini, una signora diceva al figlio, porgendogli una felpa, “piccolo, mettiti qualcosa addosso, stai tremando”, scambiando per brividi di freddo una crisi d’astinenza del ventenne.

lunedì 24 settembre 2012

Quanno ce vo'

Mettendo in ordine i pantaloncini estivi mi sono per caso imbattuto in un pizzino con alcune righe che mi ero segnato e che avevo dimenticato. Più o meno diceva così: 

DARE LA MASSIMA DIFFUSIONE:
l'Autogrill di Sala Consilina Est fa schifo, il bagno degli uomini presenta ingenti quantità di merda spalmata sui bordi del water, in quello delle donne gli scarichi non funzionano e le porte sono rotte, al bar servono il caffé in bicchierini di plastica, i panini sono coperti di mosche e il tutto è innaffiato con grande scortesia. Se passate da quelle parti, tirate avanti.

Questa è la massima diffusione di cui sono capace.

martedì 12 giugno 2012

Fight Club

Il parcheggio dedicato ai motorini in prossimità della stazione della metro Cipro, con le strisce bianche ben evidenti ad indicare la gratuità dei posti assegnati alle due ruote in contrapposizione con quelle blu per i posti a pagamento, riservati agli autoveicoli, sta ad indicare una sorta di incentivo economico destinato a chi ha un minor impatto sul traffico urbano e sull’occupazione del suolo pubblico; spesso quel parcheggio gratuito è preda di incivili che, per evitare la zona a pagamento, piazzano la propria auto di traverso occupando in un sol colpo sei o sette posti moto.
E’ a mio parere doveroso che il cittadino dia un segnale a chi non rispetta le regole, e in questi casi il vostro tacchino adotta un comportamento che ha già avuto modo di spiegare qui, un innocuo atto di protesta: alza i tergicristalli della vettura mal parcheggiata, come a dire: “caro signore, disapprovo la sua arroganza e il suo menefreghismo nei confronti delle regole del vivere comune”.
Stamattina il Land Cruiser extra-large modello protezione civile non solo ne occupava otto di posti moto (giuro, li ho contati) ma faceva debordare il suo enorme muso sul marciapiede, occupandolo con entrambe le ruote anteriori. Dopo aver parcheggiato il mio scooter nel poco spazio rimasto, ho fatto quello che faccio sempre: ho alzato con calma i tergicristalli anteriori dell’astronave, come discreto segnale indirizzato al suo conducente.
Un tipo aggressivo è spuntato fuori dal nulla sbraitando.
-Che cazzo fai, lascia la mia macchina, io a te non ti ho toccato, tu non devi toccare me.
-Ma io ho parcheggiato bene mi pare, sei tu che hai invaso otto posti riservati e pure il marciapiedi; e poi non ho danneggiato l’auto, ho solo lasciato un segnale che voleva dire che hai parcheggiato di schifo. Visto che sei qui ti chiedo anche di spostare la macchina, grazie.
-La mia macchina non la devi toccare.
L’atteggiamento era dei più disgustosi, voler ribaltare la situazione con l’aggravante della più becera arroganza, quella legata al possesso dell'auto, assurta in quel momento a status symbol del faccio come cazzo mi pare: sentivo le ghiandole surrenali che secernevano adrenalina a fiotti. Mettiamola così: ha alzato la voce e ho alzato la voce. E forse le cose non sono nemmeno andate in questo preciso ordine. Tralascio i particolari (anche perché non li ricordo), basti sapere che ho concluso la mia invettiva con un “sposta questa cazzo di macchina” gridato a brutto muso. Ho fatto anche un’altra cosa: mentre la dicevo, questa frase, come un molossoide in un ring per combattimenti clandestini, ho fatto un passo avanti verso il mio avversario per saggiarne le volontà combattive.
Se ci ripenso ora mi viene quasi da ridere, ma ero una belva pronta a saltare alla gola (e nemmeno troppo metaforicamente). Lui all’istante ha fatto un passo indietro, in una sorta di remissione. Come se avesse accennato a mettere la coda tra le gambe. Per me è stato più che sufficiente, mi ritenevo completamente soddisfatto, ero pronto a finirla lì, ad accettare la giustizia ristabilita che era implicita in quel passo indietro, in quel piccolo cedimento. Come ogni buon molosso dominante, ero pronto a farmi annusare i genitali (questa volta metaforicamente).
Le cose parevano davvero sistemate, lui che sale sull’auto e mette in moto, io che sono ancora davanti al muso del Toyotone (il genere maschile è ammesso per quella stazza di auto). Poi il tipo mi guarda negli occhi attraverso il parabrezza, fa una brusca accellerata e lascia la frizione ripremendola subito dopo, facendo così fare uno scatto in avanti all’auto che in una sorta di abbaiata si avvicina pericolosamente al mio bacino. Come a dire: ora sono sul mio potentissimo mezzo, ti schiaccio quando voglio, la tua vita è nelle mie mani.
É qui che avviene una cosa stranissima, a mio parere inspiegabile: in questi casi l’Homo Sapiens dovrebbe farsi un rapido calcolo e dire: sai che c'è, ho davanti un coglione, e io non rischio la vita per un coglione, ho una moglie e due figlie, quindi giro le spalle e me ne vado. Questa è la cosa logica da fare, dice l’Homo. E invece il vostro tacchino, che Homo non è, sfoggia uno dei suoi numeri da adolescente in calore: tira un cazzottone sul cofano nero di quella macchina che, con il motore acceso e la marcia innestata, è a soli venti centimetri dalle sue gambe. Esattamente come avrebbe fatto l’Homo Neanderthalensis, o forse nemmeno, che anche lui era più furbo di un tacchino. A quel punto mi aspettavo di tutto. Il tipo per fortuna non va oltre, fa manovra e se ne va, e la cosa finisce senza danni. E mentre fa marcia indietro io sono ancora lì, pronto a guardarlo mentre romba via, come ero stato pronto pochi secondi prima ad affrontare parecchi quintali di SUV con la sola opposizione dei miei sessantasei chili di ossa e occhiali da miope. Come un vero coglione.
E ora mi rimetto completamente alla mercè di ciò che vorrete dirmi: sbeffeggiatemi, chiamatemi animale, fatemi notare che chi scende a quel livello è sempre in torto, fatemi capire che il perdente sono io, che poteva finire male per una cazzata, che non ne valeva la pena, che la calma è la virtù dei forti, che devo crescere, che una persona matura e con famiglia non si comporta così, che è da incoscienti, e ricordatemi pure che non è la prima volta che faccio cose del genere (ed eccone le prove), che prima o poi finirà male, che sono un povero idiota. Forse me lo merito.
Ma mi dovete convincere.