Visualizzazione post con etichetta evoluzione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta evoluzione. Mostra tutti i post

giovedì 23 aprile 2020

E tu durante il Grande Lockdown del 2020 che hai fatto?

Un giorno qualcuno mi chiederà come ho impiegato il tempo nei giorni del Grande Lockdown del 2020.
Tra venti o trent'anni un nipote mi guarderà al di sopra dell'ultrawatch e mi rivolgerà con noncuranza la domanda delle domande: e tu, nonno, cosa hai fatto in quel tempo? Come hai utilizzato la Grande Opportunità che ogni estimatore della vita casalinga desidera?
Sono sicuro che lo farà.
E io mi sono preparato la risposta: cosa ho fatto? Mi chiedi cosa ho fatto, moccioso? Ecco cosa ho fatto:
1- Ho panificato. Pane tre volte a settimana, pizza una volta. Mai fatti prima. Certo, gli esiti non sono sempre stellari, ma ho sperimentato, ho imparato, come il mio impasto sono cresciuto.
2- Ho praticato l'inglese. Ho letto resoconti sul Covid19, ascoltato webinar e podcast, visto serie e documentari, letto libri, tutto rigorosamente in inglese. Ora quando ascolto qualcuno che parla la lingua di Shakespeare ed è consapevole di essere ascoltato anche da stranieri, mi pare di capirlo molto meglio, di perderne al massimo il 10%. Credo di essere migliorato, sono cresciuto.
3- Ho fatto ginnastica. Regolarmente, tutti i giorni, almeno per 40 minuti. Ho allenato parti del corpo che erano dormienti da anni. Ho sperimentato nuovi esercizi e mi sono posto nuove sfide, coerenti col mio stato fisico e con i miei acciacchi da cinquantenne. Credo di aver ottenuto dei piccoli risultati, mi sono preso cura di me, sono cresciuto.
4- Ho studiato. Ho preso un testo universitario di fisica e mi sono messo a leggerlo: scalari e vettori, cinematica, gravitazione, termodinamica, elettrostatica, magnetismo. Non so fare gli esercizi, non ricordo a memoria le formule e non sarei in grado di sostenere nemmeno una interrogazione al liceo, ma ho capito delle cose, mi sono tolto dei dubbi, me ne sono venuti altri di livello diverso, ho intuito un mondo, sono cresciuto.
5- Ho disegnato. Ho comprato un blocco di carta spessa, un inchiostro waterproof per la mia stilo, una scatola di acquerelli e ho cominciato a buttare giù delle cose, a copiare in giro, a mischiare colori, a sperimentare senza timori o inibizioni. Mi è sempre piaciuto disegnare ma, inspiegabilmente, non l'ho mai fatto. Ho sempre ammirato chi lo sapeva fare, ogni tanto ho provato, ma abbandonavo sempre per la paura di essere giudicato. Ogni giorno ho disegnato qualcosa, e dopo poco mi è sembrato di riuscire a fare tratti più armonici, di sbagliare meno i colori, di azzeccare meglio le proporzioni. Pian piano sono migliorato, sono cresciuto.
Piazza con gente e bar aperti... sigh...

6- Ho fatto il rappresentante di classe. E non è stata proprio una passeggiata, nella fase embrionale della Didattica a Distanza. Da un lato docenti poco inclini a cambiare modalità di insegnamento, con poca dimestichezza con gli strumenti multimediali, attaccati a orari e ad abitudini che in emergenza perdono di senso; dall'altro genitori desiderosi di non cambiare nulla, di assicurare ai figli esattamente ciò che avevano in classe e di tenerli occupati il più possibile; e io nel mezzo a conciliare i due mondi, a mediare tenendo presenti i desideri di tutti ma senza offendere nessuno. Ho scritto, messaggiato, parlato, proposto. Ho imparato ad avere a che fare con varia umanità, sono cresciuto.
7- Ho giocato a tennis. Con mia figlia, due o tre volte a settimana, nello spiazzo di cemento antistante ai box condominiali. Ho lavorato sul servizio, sul dritto, sul rovescio, sempre imitando lei che è anni avanti. Ho migliorato qualche colpo, sono cresciuto.
8- Ho scritto. Poco, ma ho scritto. Non proprio un diario, ma appunti, schizzi. Tipo questa cosa che avete davanti agli occhi. E facendolo mi sono conosciuto un po' di più, sono cresciuto.

Nota per colleghi di lavoro: ovviamente il tutto nei tempi consentiti dal mio lavoro, che fortunatamente è proseguito in smart working: quindi la mattina presto, in pausa pranzo, la sera prima o dopo cena e nei week end. Sono cresciuto soprattutto in quei momenti lì, tranquilli.

sabato 6 aprile 2013

Ebook - fase 3.0

Come ogni mattina Alfredo preparò la cartella per andare a scuola. Il materiale necessario per la seconda liceo è cosa semplice, basta infilare il tablet con su caricati tutti i testi scelti dai professori, le schede degli esercizi e i programmi di scrittura aggiornati. L'unico fastidio era tirasi dietro una volta a settimana una decina di quegli antiquati fogli di carta Bristol che il vecchio e reazionario prof di disegno pretendeva per le esercitazioni a mano libera: il vegliardo non riusciva proprio a digerire le Apps di disegno virtuale.
Ormai da anni la casa di Alfredo, come le tutte altre de resto, era libera da scaffali, mobili a parete, faldoni per documenti, dischi; tutto lo scibile necessario era contenuto nel cloud di famiglia e all'occorrenza visionabile e utilizzabile da dovunque tramite tablet grazie al collegamento wifi che da decenni era obbligatorio e gratuito su tutto il territorio nazionale. Fu un'iniziativa del primo eresiarca della Repubblica Italiana, quel Beppe Primo che nel lontano 2015 aveva rivoluzionato la metodologia di archiviazione del sapere e le modalità di accesso ai documenti: da allora tutti i supporti cartacei, vinilici, plastici, papirici, erano stati eliminati e sostituiti da file elettronici disponibili sui cloud personali, familiari, aziendali, pubblici e governativi.
I primi falò organizzati dal neonato Ministero della Semplificazione Documentale furono dei veri e propri eventi mondani: ognuno accorreva con tutta la propria biblioteca fisica caricata su auto, furgoni, scooter, carretti a ruote, pieni di tutto quello che era ormai vecchio: testi scolastici, romanzi, raccolte di poesie, saggi di storia, cd musicali, dischi in vinile, film su dvd, documenti notarili, persino i vecchi volumi del nonno. Il tutto veniva diligentemente e gratuitamente sostituito dalle copie autorizzate elettroniche, se disponibili, oppure scannerizzato lì per lì in caso di documenti personali, vecchie lettere, fatture, contratti, atti, poi autenticato con firma elettronica dall'addetto comunale e infine cloudizzato. I falò erano una vera e propria festa, si ballava, si beveva, qualcuno ha pure conosciuto in quell'occasione il partner di una vita. Tutti erano pienamente consapevoli della rivoluzione che stavano finalmente portando a termine: un nuovo mondo vedeva la luce da quel momento, un futuro di semplificazione e di libertà dalla carta si stagliava all'orizzonte. Dopo la festa ognuno se ne tornava a casa con una password e tanto spazio sulle pareti di casa da riempire finalmente con oggetti moderni e belli da vedere e da mostrare agli ospiti. Ben presto i termini che designavano gli oggetti non più esistenti furono dimenticati, le parole sono memi dinamici, vivono grazie all'uso, muoiono presto se non utilizzate; "carta" rimase a designare più che altro il materiale da imballaggio e i supporti per la pulizia e la cura del corpo, che soffiarsi il naso con un tablet non era ancora possibile, nonostante i costanti sforzi di Apple e Samsung in tal direzione.
Alfredo era contento così, grazie alla Rivoluzione Documentale non aveva mai dovuto trascinarsi dietro zaini pesanti per andare a scuola, bastava una borsetta per il tablet e la sua memoria per le password, tutto lì. Adorava leggere, romanzi, saggi, divorava tutto, capiva che dietro quelle parole c'era la chiave per la comprensione dell'universo e lui era curioso da sempre. Il tablet lo accompagnava dovunque. Sulla sua porzione di cloud aveva archiviato circa tremila libri, ogni tanto ne richiamava uno sul suo tablet e lo affrontava, di solito prendeva appunti sul word processor e approfittava del collegamento al web per approfondire alcuni argomenti. Un mondo fatto su misura per le sue passioni.
Cominciò a pensare che alcune di quelle opere su file erano davvero fondamentali, tipo quel trattato di storia del pensiero matematico che aveva per le mani in quei giorni, pubblicata sul cloud di "Le Scienze" dal più autorevole terzetto della rete di quegli anni, gli Eredirudi Mathematici. Voleva che quelle parole fossero a sua disposizione sempre. Sì, certo, già lo erano, erano lì sul cloud, ma gli sembrava un modo troppo astratto di conservare qualcosa di così importante, non riusciva a toccare quelle parole, a possederle pienamente, il suo desiderio di dominio fisico non era completamente soddisfatto. 
Qualche tempo prima aveva scovato in cantina una vecchia stampante, appartenuta al nonno di suo padre; la rimise in sesto e cominciò dapprima a stampare le pagine più salienti di alcuni file sui fogli di carta che gli rimanevano dopo le lezioni di disegno, scegliendo accuratamente i paragrafi che voleva avere sempre lì davanti a sé. Poi passò a stampare interi saggi, romanzi, racconti. Ma le pagine così stampate erano troppo disordinate, allora si procurò del cartone dall'imballo del nuovo videoputer 56 pollici del padre e lo utilizzò per rilegare i fogli tra di loro; alcune opere a cui teneva particolarmente le rilegò con colorati cartoncini recuperati dalle scatole di scarpe, e su ci stampava pure il titolo, in modo da poterle distinguere a prima vista; si accorse ben presto che così rilegati quei fogli erano particolarmente gradevoli alla vista, e stavano benissimo ad ornare le pareti vuote della sua stanza.
Comperò uno scaffale per mettere dentro tutto quello che stampava, era bello da vedere e da mostrare ai compagni di classe che lo venivano a trovare. All'inizio non sapeva bene come chiamare quei pacchi di fogli rilegati insieme, poi fece qualche ricerca, scoprì che decenni prima c'era una parola che designava oggetti del genere. Lì chiamò libri. E il suo tablet all'improvviso gli sembrò obsoleto.

giovedì 14 marzo 2013

Ancora sui vantaggi del furto

Oggi fa una settimana che mi hanno rubato lo scooter; da allora nei movimenti da e verso il lavoro e nei i trasferimenti connessi con la giornata feriale media (scuola bimbe, piccole spese, riunioni di lavoro fuori sede, ecc.) utilizzo esclusivamente i mezzi pubblici e i miei onorati piedi. Ho raccolto sufficienti dati per farvi sapere come sta andando.

Aperta parentesi. Mi hanno fatto notare che il termine "motorino" utilizzato nel precedente post a designare il mezzo che mi è stato fraudolentemente sottratto, un Liberty 150, era alquanto impreciso, e denotava l'appartenenza del sottoscritto ad un generazione cresciuta versando miscela al 2% nei poco capienti serbatoi di Ciao e Sì Piaggio. Me ne scuso. Da oggi per indicare un motociclo di piccola cilindrata utilizzerò il più moderno "scooter". Va bene così, pignoletti quarantenni dei miei cabasisi? E chiusa parentesi.

La settimana trascorsa è stata utile per la verifica delle stime dei tempi di trasferimento tramite misure effettive, e mi ha fornito l'occasione di meravigliarmi per l'accuratezza delle prime grazie ad un congruo campione delle seconde. Le stime più accurate erano quelle relative ai tratti a piedi, più che altro per due motivi: primo, un buon runner conosce sempre la propria andatura, secondo, quei tratti non sono inficiati da Tempi di Attesa Mezzi Pubblici su Ruote (in seguito TA), sempre di difficile valutazione.
Di seguito uno schema dei miei percorsi usuali con l'indicazione dei tempi effettivi espressi in minuti. Non viene analizzato il tratto metro-ufficio in quanto rimane immutato rispetto a prima e non era sottoposto a verifica (anche quando avevo lo scooter, il mezzo veniva utilizzato per arrivare fino alla fermata della metro per poi proseguire con quella).


Percorso con bus a piedi con scooter
casa-scuola NA 4 4
scuola-metro 15 19 5
casa-metro 15 21 7





NB: i tempi "con bus" comprendono il tragitto a piedi da e per la fermata del bus (6 minuti), il tratto in bus (6 minuti) e una media di TA (3 minuti). I tempi "con scooter" comprendono le fasi propedeutiche all'utilizzo del motomezzo, quali apri il bauletto, infila i guanti, indossa il casco e fallo indossare ai passeggeri, richiudi il bauletto ecc., operazioni che, soprattutto nei tratti brevi, pesano molto sui tempi totali del viaggio. Questo fattore "preparazione", insieme al fatto che lo scooter, a differenza dei piedi, è tenuto a seguire i percorsi obbligati del traffico (tipo i sensi unici e i semafori), rendono uguali i tempi di percorrenza dello scooter e dei piedi nel tragitto casa-scuola.

Ora, già vedo le boccucce dei pignoletti di cui sopra che si aprono a facili considerazioni: Tacchino, come fai a sapere i tempi dei trasferimenti con scooter se tu uno scooter non ce l'hai più? Non mi dirai che li avevi presi prevedendo il furto e la tua successiva decisione di utilizzarli per un post? O non mi dirai (peggio) che quei tempi li stai stimacciando proprio ora mentre scrivi, con l'evidente incentivo a sovrastimarli per dimostrarci che la tua decisione di rinunciare allo scooter è ben ponderata?
A quei pignoletti io rispondo: fottetevi.

Analizziamo piuttosto i dati: non sussistono particolari problemi sul tratto casa-scuola, per il quale il nuovo status di pendolare appiedato non mi ruba nemmeno un minuto. Appare invece evidente come, nei tratti da e per la fermata della metro, la scelta tra aspettare il bus e avviarsi a piedi dipende esclusivamente da TA. Se TA è maggiore della differenza tra il tempo dello stesso tratto a piedi e 12 minuti (tempo di percorrenza con bus al netto di TA), allora conviene andare a piedi, altrimenti meglio aspettare il bus. Il problema è che TA è poco prevedibile. Alcune fermate del centro sono munite di palette elettroniche che informano su TA, ma da me non sono ancora arrivate. Esistono poi alcune modalità per furbofoni (Apps tipo Roma Bus o anche una visita al sito dell'Atac) dove vengono forniti con sufficiente accuratezza i minuti da aspettare, ma per ora le mie dotazioni tecnologiche non arrivano a tanto. Di solito mi organizzo in maniera empirica: se vedo che la fermata è vuota, ci sono buone probabilità che il bus sia appena passato, e che quindi ci sarà da aspettare più dei 3 minuti medi. In quei casi vado a piedi. Altrimenti provo ad aspettare 4 minuti (nel caso del tratto scuola-Metro) o 6 (nel caso del tratto casa-metro): se entro quelli non vedo stagliarsi un mastodonte giallo-arancione all'orizzonte, vado a piedi. La misurazioni dei giorni scorsi indicano inolte che TA varia nel corso del giorno, muovendosi da valori prossimi allo zero di mattina (quando le corse sono più frequenti e spesso con un breve scatto felino riesco a salire sui bus che scorgo in arrivo mentre mi avvicino alla fermata) fino ad un massimo di 5 o 6 minuti della sera. Oltre i 6 minuti non saprei dire, visto che come ho già detto superata quella soglia mi avvio a piedi.
E' sicuramente vero che i tempi con scooter in questi tratti medio-lunghi sarebbero minori, e che il vantaggio cresce nel tratto più lungo (casa-metro), arrivando ad un risparmio massimo di 14 minuti rispetto ad un percorso totalmente a piedi. Ma 14 minuti non sono molti se li confrontate con le ere geologiche o con i vantaggi di muoversi senza mezzi meccanici propri, vantaggi che per vostra comodità riepilogo:




La mia solita fermata del bus

  • Risparmio di denaro (tra assicurazione, bollo, carburante, manutenzione, accessori arrivavo a circa 800 euro l'anno. A questi va aggiunto l'eventuale ammortamento dell'acquisto del mezzo, che nel mio caso era prossimo allo zero, ma in caso di scooter nuovo fiammante può arrivare anche a mille euro l'anno)
  • Meno incidenti stradali
  • Meno litigi per questioni di traffico
  • Nessun impatto ecologico aggiuntivo per la comunità
  • Allenamento mattutino e serale con cardio walking (in caso di tratti completamente a piedi)
  • Possibilità di utilizzo migliore del tempo: posso ascoltare la radio nei tratti a piedi recuperando il tempo completamente perso della guida, posso telefonare o inviare sms nei tratti in bus (tratti durante i quali l'ambiente scarsamente confortevole e la brevità del percorso non consente letture più impegnate)
  • E, last but not least, notevole interesse faunistico della mia solita fermata del bus.

Conclusione uno: viva l'emancipazione dai mezzi privati.
Conclusione due: anche se avessi raggiunto la conclusione uno qualche tempo fa, non sarei comunque mai riuscito a sbarazzarmi di un motorino scooter perfettamente funzionante. Ergo, ringrazio pubblicamente lo sconosciuto che mi ha aiutato in questa evoluzione verso la libertà, anche se avrei preferito l'utilizzo di una efficace comunicazione interpersonale rispetto al furto con scasso.
Un'ultimissima considerazione. Come vi sarete probabilmente accorti, questa emancipazione dai mezzi meccanici privati mi elettrizza anzichenò, e fino a ieri non me ne riuscivo a spiegare completamente il motivo.
Poi stamattina l'ho capito: organizzare spostamenti basati solo sui mezzi pubblici e sui piedi mi riporta indietro di vent'anni, quando giravo l'Europa in treno e in autostop armato solo di un biglietto ferroviario Inter Rail, di scarpe comode e di un pollice sfacciato.
Se sostituisco "Roma" a "Europa" e "tessera ATAC" a "Inter Rail" ecco che quel senso di libertà pare riaffacciarsi.
Come dite? Durerà poco? Può darsi. Intanto godo.

domenica 24 febbraio 2013

Darwin And Election Day


Giorno campale per l'evoluzione del paese. La mia compagine neuronica vorrebbe astrarsi per un attimo da tutto questo e festeggiare come si deve il Darwin Day (a dire il vero mi pare la data giusta fosse il 12, ma cos'è qualche giorno di ritardo confrontato all'immensità delle ere geologiche). Purtroppo non riesco a tirar fuori nulla di buono nel breve intervallo a mia disposizione tra le operazioni di voto e le consuete incombenze domenicali.
Mi scuserete quindi se vi ripropongo pari pari un post che buttai giù nel 2011, e se non mi scusate pazienza, il copyright è mio e lo gestisco io.

Lo Stomaco Di Darwin

Leggere biografie è sempre stato un esercizio ammaliante: buttarsi a capofitto in un’epoca spesso distante dalla propria scoprendone lati della vita quotidiana, contesti storici, modi di pensare tipici del tempo è già affascinante. Ma farlo accompagnati dalle vicende e dai pensieri di personaggi eccezionali, pionieri in grado di cambiare una volta per tutte la storia, è semplicemente impagabile. E uno degli uomini che ha avuto più influenza nella storia della cultura umana è stato senz’altro Charles Darwin.
Nella primavera del 1838 lo troviamo alle prese con i suoi dilemmi morali. Stava man mano entrando nel vivo della formulazione della sua rivoluzionaria teoria evoluzionistica (anche se più che di teoria dovremmo parlare di legge) ma si stava accorgendo che le sue considerazioni, una volta diffuse, avrebbero minato alle fondamenta tutta la visione filosofica dell’epoca. Questa consapevolezza gli dava ansia, dolori allo stomaco, tachicardie improvvise. Era costretto a passare le giornate chiuso nel suo appartamento londinese a rimuginare in segreto sui dati raccolti nel corso del suo viaggio intorno al mondo, sulle lunghe discussioni con gli allevatori inglesi, sulle teorie evoluzionistiche già proposte da altri studiosi negli anni precedenti; mentre nei suoi rari appuntamenti mondani, nei salotti culturali e nelle stanze accademiche doveva celare tutte le sue scoperte e le sue idee dietro un atteggiamento di pacato allineamento alle convinzioni dominanti del suo tempo: creazionismo, dualismo spirito/materia, centralità della specie umana all’interno del creato, superiorità della cultura europea.
Dentro di sé però percorreva nuovi sentieri: con i caratteri fitti con cui riempiva il suo “Taccuino C” Darwin osava geniali salti teorici che si sarebbero rivelati inconfutabili dopo decenni ma che allora poteva confessare solo a se stesso: “E’ difficile immaginare il pensiero se non come struttura del cervello (…) L’amore per la divinità è un effetto dell’organizzazione”. Stava cominciando a essere consapevole della vita organica come riducibile esclusivamente a elementi essenziali capaci di autoorganizzazione ed evoluzione. Una catena ininterrotta di generazioni con individui sempre più complessi. Ma se gli atomi della materia vivente avevano il potere di autosvilupparsi, allora non c’era più spazio per l’influenza divina.
Inoltre si conviceva sempre più che lo spirito e il pensiero non erano altro che un prodotto della materia vivente: una secrezione del cervello. Pertanto gli istinti e le caratteristiche mentali di base, in quanto prodotto dell’organizzazione neurale, potevano essere ereditate come un qualsiasi altro carattere fisico. Aveva oltrepassato la dicotomia tra spirito e materia e la aveva sintetizzata in una visione materialistica ed evoluzionistica.
Una volta presa questa strada diventava possibile anche intuire la selezione, generazione dopo generazione, di alcuni schemi mentali che sembrano infusi da entità trascendentali. Stava avvicinandosi a ipotizzare quella che poi Richard Dawkins avrebbe definito “trasmissione memica”, ossia la diffusione, tramite comunicazione ed educazione, di schemi mentali e culturali sottoposti a selezione naturale, primo tra tutti il sentimento religioso. Se l’idea di Dio fosse stata impiantata trascendentalmente nella mente degli uomini, allora dovrebbe essere presente in tutte le popolazioni. Ma i suoi viaggi gli avevano insegnato che in alcuni popoli l’idea di divinità intesa alla maniera occidentale non era nemmeno presa in considerazione. L’unica spiegazione era che quell’idea fosse anch’essa un prodotto dell’evoluzione, come la pelle scura o la resistenza al freddo. Ma come poteva sperare di ottenere una cattedra a Cambridge, roccaforte dell'autorità anglicana, con idee del genere? E il dolore allo stomaco aumentava.

sabato 5 gennaio 2013

Il gioco della vita

Immaginate un mondo bidimensionale diviso in tanti quadratini uguali che rappresentano la minima unità di spazio e che chiameremo celle; ogni cella può essere piena (nera) o vuota (bianca) e ha otto vicini che confinano con essa per un lato o per un angolo. Immaginate un quadrato di, facciamo, mille celle di lato come campo di gioco.
Definiamo le due uniche leggi fisiche del nostro mondo virtuale, solo e nient'altro che queste:
  1. una cella vuota con tre vicini pieni diventa piena, altrimenti rimane vuota.
  2. una cella piena con due o tre vicini pieni rimane piena, altrimenti diventa vuota.
Se siete portati ad antropomorfizzare, potete intendere la regola 1 come nascita da tre genitori, la regola 2 come morte da isolamento o sovraffollamento.

In questo mondo semplificato il tempo scorre in modo discreto, per istanti successivi, un po' come nei combattimenti nei film di Bruce Lee.
Vediamo come funziona questa cosa che abbiamo creato: se in un istante abbiamo una sola cella nera, questa nell'istante successivo diventerà bianca (o morirà per isolamento) e poi il nulla.
Se abbiamo invece tre celle piene contigue e allineate in orizzontale, nell'istante 1 la cella centrale avrà due vicini pieni, e quindi nell'istante successivo rimarrà piena (regola numero 2), mentre le altre due celle, a destra e a sinistra di quella centrale, avranno un solo vicino nero, e diventeranno bianche (sempre regola numero 2). Di contro le celle sopra e sotto la celle centrale, inizialmente vuote, avranno nell'istante 1 tre vicini neri (le tre celle iniziali) e quindi diventeranno nere nell'istante due (regola numero 1). Semplice no?
Per rendere il tutto più realistico, qui sotto vi propongo la situazione dinamica, una figura chiamata "lampeggiatore" di periodo 2 (ogni due istanti torna alla configurazione iniziale):



Ci sono altri lampeggiatori di periodo 2, come questi:





Ma ci possono essere anche figure cicliche a periodi maggiori di 2.
Ci sono poi figure che rimangono sempre fisse, le più semplici delle quali sono queste (provate ad applicare la regola numero 2 ad ogni cella e vedrete che funziona, in quanto ogni cella nera ha due o tre vicini neri):








Di solito, se si dispongono casualmente nello spazio delle celle nere, le configurazioni così create si modificheranno istante per istante per approdare poi ad una situazione statica o all'estinzione. A volte però si può costruire qualcosa di interessante.
Vi consiglio di provare voi stessi a creare delle figure per vedere quanto tempo sopravvivono e se hanno delle caratteristiche particolari. Se, come credo, non vi va di fare i calcoli per conto vostro, sappiate che in rete ci sono decine di programmi, anche online, che lo faranno per voi (ad esempio questo o quest'altro, o se siete ipadizzati ci sono alcune Apps da scaricare), visto che questo mondo artificiale è ben famoso, è stato ideato e poi sviluppato dal matematico britannico John Conway già dall'inizio degli anni settanta, e si chiama "The Game of Life", o semplicemente Life.
Lo scopo iniziale di Conway era mostrare come da un mondo semplice con basilari leggi fisiche (due, nel nostro caso) fosse possibile ottenere comportamenti simili alla vita.

Se questo obiettivo vi sembra esagerato provate a giocarci un po' e scoprirete che ci sono delle figure che si modificano riempiendo celle verso un lato e svotandone altre nel senso opposto e che quindi pare si muovano.
Ad esempio questo è un aliante, la più sempice struttura semovente:



e questa una nave spaziale



Se andiamo verso una maggiore complessità, possiamo trovare delle strutture che ne mangiano altre, che si uniscono a formarne una più grande, o che emettono impulsi informativi verso l'esterno, come il cosidetto "cannone di Gosper", che spara alianti (sono le figurette che vanno verso sudest).



Life avuto moltissimo successo tra studiosi e semplici curiosi in tutto il mondo: sono stati elaborati programmi per PC per simulare a forti velocità le evoluzioni delle figure più complesse, sono state progettate nuove proprietà, sono nati forum per discutere delle figure migliori, persino organizzate battaglie tra creature per trovare la più resistente, la più adatta, in una sorta di evoluzione darwiniana. Vi consiglio di andare a sbirciare su You Tube alcune delle panoramiche più rappresentative (a mo' di esempio vi indico questa, davvero strabiliante).
Life è stato utilizzato anche per provare a simulare la vita artificiale. Ad esempio è stata progettata una figura che è capace di replicare se stessa, una sorta di DNA virtuale. Abbiamo tra le mani un giocattolone in cui, partendo da elementi semplicissimi e regole minime, se si riesce a raggiungere un livello di aggregazione sufficientemente complesso, si giunge a meccanismi che sembrano fuori della portata delle iniziali e semplicissime regole ed elementi, e che sembrano addirittura creati da intelligenze superiori, sembrano avere una vita propria (se avete dato un'occhiata agli esempi su You Tube quest'affermazione non vi sembrerà così assurda), mentre invece sono solo organizzazioni complesse di elementi semplici che seguono un algoritmo, una regola fisica, nient'altro. Qualcuno potrebbe dire che in Life un'intelligenza superiore c'è, ed è quella del demiurgo che inventa la figura e la deposita sul piano di gioco, ma a ben vedere l'apporto del demiurgo è più che altro per simulare una disposizione casuale delle celle che potrebbe verificarsi anche spontaneamente, se solo avessimo a disposizione il tempo necessario e una regola che ogni tanto fornisce un errore, tipo la replicazione non sempre perfetta del DNA.
Prendiamo ad esempio l'aliante. È una figura molto semplice, viene fuori autonomamente dopo pochissimi tentativi ed errori. Ed è il fondamento di tutto il resto su Life, del movimento, dell'informazione che passa da una struttura all'altra. In linea teorica è stato dimostrato che sarebbe possibile creare su Life una macchina di Turing universale, con le informazioni che passano al suo interno grazie ad un nastro di alianti, e quindi svolgere ogni tipo di calcolo (sulla rete ci sono parecchie macchine universali di Turing costruite su Life, ma non so se funzionano davvero). Per alcuni ciò significa che potenzialmente, raggiungendo la necessaria complessità, si potrebbe creare artificialmente una mente, una coscienza. È stato calcolato che una struttura del genere dovrebbe essere sufficientemente complessa (servirebbero 10 alla tredicesima celle, un quadrato di circa tre milioni di celle di lato) ma non c'è da meravigliarsi delle dimensioni teoriche di questo "mostro", considerato che anche con queste dimensioni non sarebbe più grande rispetto ai suoi mattoni fondamentali di quanto un organismo semplice lo è rispetto ai suoi atomi (1).

Che piaccia o meno, fenomeni come questo mostrano il nocciolo della potenza dell'idea darwiniana. Un minuscolo brandello di meccanismi molecolari, impersonali, irriflessivi, automatici e privi di una mente è il fondamento ultimo di tutta l'azione, e quindi di tutto il significato, e quindi di tutta la coscienza, dell'universo.

Vi lascio con un magnifico esempio delle potenzialità di Life: un mega-schema dove, con i meccanismi atomici di Life, viene riprodotto a dimensioni estremamente maggiori Life stesso. In poche parole un Life frattale, sottolineato dall'azzeccatissimo commento audio, una nota che sembra continuamente crescente ma a ben vedere è ciclica, a suo modo una nota frattale.






Note:
  1. Per chi volesse approfondire, consiglio l'ottima trattazione dei significati evolutivi del Game of Life di Conway come viene esposta nel libro di Daniel Dennett, L'Idea Pericolosa di Darwin, dal quale è anche tratto il corsivo finale.

sabato 9 giugno 2012

Metamorfosi


La lenta evoluzione tra le forme agli occhi di una quattrenne: come passare da "P" a "4" senza soluzione di continuità.

lunedì 26 marzo 2012

Carneficina

Avevo pianificato l'azione per giorni, ne avevo valutato i pro e i contro, avevo costruito alibi in caso mi avessero accusato, studiato minuziosamente vie di fuga e piani b, armi e mezzi, appoggi esterni e tempistiche.
Ieri sera tutto sembrava incastrarsi a perfezione, avevo il tempo e la motivazione necessari, e tutto faceva sembrare quel momento come quello dell'ora o mai più.
E' stato allora che ho deciso di farlo.

venerdì 9 marzo 2012

Allevamento delegato

Mattinata inusuale, quella di oggi: trascorsa a casa con mia figlia quattrenne e la sua influenza, in attesa di tata T disponibile solo dall'una.
Mattinata meravigliosa, quella di oggi: la febbre della piccola G si è abbassata rispetto ai picchi himalayani di ieri e abbiamo passato il tempo a disegnare, colorare, leggere i numeri, fare puzzle, cucinare le cose che ci piacciono, chiacchierare, insomma crescere, il tutto con la rara tranquillità offertaci dall'assenza di appuntamenti e scadenze, che esistono anche nel mondo dei bimbi, che credete, li abituiamo da subito ai nostri dài che facciamo tardi a scuola, in piscina, alla festa, al parco.

mercoledì 30 novembre 2011

Un tacchino evoluzionista

Ho appena letto l’ultimo articolo di Amedeo Balbi sul Post. Ne riporto la prima parte:
la scienza ha un metodo: anzi, si potrebbe dire che la scienza è un metodo. Un metodo che usa l’esperimento e l’osservazione per mettere alla prova ipotesi e affermazioni sulla realtà, ipotesi e affermazioni che a loro volta devono essere formulate in modo da poter essere sottoposte al vaglio dell’esperimento. La scienza è una formidabile, efficacissima macchina per selezionare, tra tutti i pensieri che il nostro cervello può produrre a proposito del mondo, quelli che hanno la maggiore aderenza con la realtà”.
Verissimo. Universale.
Scorgo un meccanismo che riprende esattamente un altro processo basilare, l’evoluzione biologica. E va bene, rompo sempre le scatole con ‘sta cosa del darwinismo. Ma c’è poco da fare, la scoperta dell’algoritmo evolutivo è una delle più grandi conquiste teoriche dell’umanità, ed è il processo fondamentale di tutte le attività biologiche. E la scienza intesa come metodo cui fa riferimento Balbi (che poi sia la fisica o l’astronomia, la geologia o la chimica, poco importa) è sempre un’attività biologica, nel senso che è fatta da uomini, e come tale deve sottostare alle leggi valide per la biologia.
Mi spiego meglio: il metodo scientifico funziona esattamente come dice Balbi, osservazione, ipotesi, esperimento, controllo dell’ipotesi, conclusioni. C’è una selezione delle ipotesi in base al loro grado di rispecchiare la realtà. Il metodo funziona, e guarda caso è lo stesso metodo che adotta la natura da centinaia di milioni di anni nel fare le sue scelte in materia di vita.
Gli elementi imprescindibili perché ci sia evoluzione biologica sono tre:
·         Mutazione (se non c’è mutazione le specie non si possono evolvere, rimangono statiche).
·         Selezione (gli individui con le mutazioni favorevoli sopravvivono all’ambiente meglio degli altri).
·         Ereditarietà (gli individui sopravvissuti trasmettono alla progenie le proprie mutazioni).
Nella scienza come metodo di scelta questi tre passi si traducono in:
·         Mutazione: proposta di ipotesi differenti per la spiegazione di un fenomeno.
·         Selezione: le ipotesi vengono filtrate tramite esperimenti, quelle che hanno successo e superano le prove a cui sono (artificialmente) sottoposte, sopravvivono.
·         Ereditarietà: le ipotesi che hanno passato il vaglio degli esperimenti diventano patrimonio della prossima generazione di ipotesi, che verranno costruite a partire da quelle.
Non so, forse il parallelismo tra il metodo scientifico e la selezione darwiniana è banale, già traspariva dal post di Balbi e non c’era bisogno di sottolinearlo. O, al contrario, è fin troppo azzardato. Ma questo blog serve anche a questo, a proporvi angolazioni diverse aspettando le vostre considerazioni. Non vi accalcate.

mercoledì 23 novembre 2011

Lo stomaco di Darwin

Leggere biografie è sempre stato un esercizio ammaliante: buttarsi a capofitto in un’epoca spesso distante dalla propria scoprendone lati della vita quotidiana, contesti storici, modi di pensare tipici del tempo è già affascinante. Ma farlo accompagnati dalle vicende e dai pensieri di personaggi eccezionali, pionieri in grado di cambiare una volta per tutte la storia, è semplicemente impagabile. E uno degli uomini che ha avuto più influenza nella storia della cultura umana è stato senz’altro Charles Darwin.
Nella primavera del 1838 lo troviamo alle prese con i suoi dilemmi morali. Stava man mano entrando nel vivo della formulazione della sua rivoluzionaria teoria evoluzionistica (anche se più che di teoria dovremmo parlare di legge) ma si stava accorgendo che le sue considerazioni, una volta diffuse, avrebbero minato alle fondamenta tutta la visione filosofica dell’epoca. Questa consapevolezza gli dava ansia, dolori allo stomaco, tachicardie improvvise. Era costretto a passare le giornate chiuso nel suo appartamento londinese a rimuginare in segreto sui dati raccolti nel corso del suo viaggio intorno al mondo, sulle lunghe discussioni con gli allevatori inglesi, sulle teorie evoluzionistiche già proposte da altri studiosi negli anni precedenti; mentre nei suoi rari appuntamenti mondani, nei salotti culturali e nelle stanze accademiche doveva celare tutte le sue scoperte e le sue idee dietro un atteggiamento di pacato allineamento alle convinzioni dominanti del suo tempo: creazionismo, dualismo spirito/materia, centralità della specie umana all’interno del creato, superiorità della cultura europea.
Dentro di sé però percorreva nuovi sentieri: con i caratteri fitti con cui riempiva il suo “Taccuino C” Darwin osava geniali salti teorici che si sarebbero rivelati inconfutabili dopo decenni ma che allora poteva confessare solo a se stesso: “E’ difficile immaginare il pensiero se non come struttura del cervello (…) L’amore per la divinità è un effetto dell’organizzazione”. Stava cominciando a essere consapevole della vita organica come riducibile esclusivamente a elementi essenziali capaci di autoorganizzazione ed evoluzione. Una catena ininterrotta di generazioni con individui sempre più complessi. Ma se gli atomi della materia vivente avevano il potere di autosvilupparsi, allora non c’era più spazio per l’influenza divina.
Inoltre si conviceva sempre più che lo spirito e il pensiero non erano altro che un prodotto della materia vivente: una secrezione del cervello. Pertanto gli istinti e le caratteristiche mentali di base, in quanto prodotto dell’organizzazione neurale, potevano essere ereditate come un qualsiasi altro carattere fisico. Aveva oltrepassato la dicotomia tra spirito e materia e la aveva sintetizzata in una visione materialistica ed evoluzionistica.
Una volta presa questa strada diventava possibile anche intuire la selezione, generazione dopo generazione, di alcuni schemi mentali che sembrano infusi da entità trascendentali. Stava avvicinandosi a ipotizzare quella che poi Richard Dawkins avrebbe definito “trasmissione memica”, ossia la diffusione, tramite comunicazione ed educazione, di schemi mentali e culturali sottoposti a selezione naturale, primo tra tutti il sentimento religioso. Se l’idea di Dio fosse stata impiantata trascendentalmente nella mente degli uomini, allora dovrebbe essere presente in tutte le popolazioni. Ma i suoi viaggi gli avevano insegnato che in alcuni popoli l’idea di divinità intesa alla maniera occidentale non era nemmeno presa in considerazione. L’unica spiegazione era che quell’idea fosse anch’essa un prodotto dell’evoluzione, come la pelle scura o la resistenza al freddo. Ma come poteva sperare di ottenere una cattedra a Cambridge, roccaforte dell'autorità anglicana, con idee del genere? E il dolore allo stomaco aumentava.

martedì 15 novembre 2011

Keynes contro Sting

Ricordo una frase che risale ai tempi dei miei studi in economia, era di John Maynard Keynes ed era riferita alla cattiva capacità predittiva a lungo termine di alcuni modelli macroeconomici. Il grande economista inglese amava dire nel lungo periodo saremo tutti morti. Ho sempre pensato che quelle parole potessero essere utilizzate da qualcuno in maniera fuorviante per sottintendere un innato scarso interesse verso gli effetti remoti di una decisione economica attuale. Come a dire, prendo la decisione in base agli effetti che voglio produrre a breve termine, per quanto riguarda il lontano futuro è difficile capirci qualcosa e nemmeno tanto utile, visto che l'orizzonte degli eventi di chi prende la decisione è al meglio di poche decine di anni. Percepisco un nefasto presagio nascosto dietro quest’atteggiamento, una pericolsa minaccia per il destino delle umane genti, non tanto per l'incapacità tecnica di prendere decisioni che abbiano una sostenibilità futura, quanto piuttosto per l'ipotizzata inutilità a farlo, vista l'assenza di un incentivo, di un legame con il futuro che non sia il sè, l’arco della propria vita.
Cosa ci responsabilizza verso gli effetti futuri delle nostre decisioni? Cosa ci incentiva a fare scelte coerenti con il benessere delle generazioni future? Qui non ci vuole un flebile monito morale, ci vuole qualcosa di viscerale, di fisico, un cavo d’acciaio che ci lega direttamente ai decenni a venire. Si tratta di costruire un ponte stabile tra la propria vita e quella futura.
E io penso che il modo più viscerale per avere cura del posto in cui viviamo è popolarlo con i propri figli.
La prole ormai non serve più a riempire il pianeta di Homini Sapiens, o a dare nuove braccia all’agricoltura o alle fabbriche, anzi, siamo fin troppi, lo abbiamo capito. Non si tratta di far sopravvivere la specie, almeno non solo. E non si tratta nemmeno di assicurare la sopravvivenza dei propri geni, del proprio cognome, della propria famiglia o patrimonio personale, tutti obiettivi forse una volta sentiti ma che oggi hanno perso gran parte del loro peso.
Lasciare una prole è fondamentale perché costituisce un legame individuale e fisico con il futuro. Metti al mondo un figlio e prima di fare una guerra nucleare al primo che ti sputa in faccia ci pensi due volte. Lo diceva anche Sting nel 1985, in Russians, un brano figlio della guerra fredda, dove a conclusione di ognuna delle tre strofe ripeteva I hope the Russians love their children too. Ovvio che il concetto di prole è allargato. Intendo prole non esclusivamente come legame di sangue, non è necessario che il ponte sul futuro sia costituito da figli naturali, il concetto di figlio come prolungamento della vita del padre vale anche per il discepolo e il suo insegnante, per l'apprendista e per il suo maestro, per l'amico e per la sua guida, in alcuni casi per il lettore e per il suo scrittore, qui non si parla solo di identificazione genica, quanto memica. Solo se tieni a chi ti viene dopo come a te stesso, indipendentemente dal legame di sangue, allora capirai che gli effetti a lungo termine delle tue decisioni sono importanti. 
E' sufficiente un forte legame memico con la generazione futura per sfanculare Keynes e la sua deresponsabilizzazione, e costruire un ponte a lungo, lunghissimo termine verso il futuro. Infinite generazioni al posto di una sola. Lunghissimo termine al posto di breve.
Sting batte Keynes infinito a uno.

lunedì 7 novembre 2011

Splinder addio

C’è tanta bassa qualità in giro. E questo non si spiega in un mondo di concorrenza perfetta. Dai miei studi di economia ricordo questo e poco altro: se ipotizziamo la concorrenza perfetta, la qualità si livella verso l’alto, perché se vendi robaccia sei punito dal mercato, i clienti vanno da un altro.
Come si spiega allora la bassa qualità da cui siamo circondati? Con la fallàcia dell’ipotesi iniziale: evidentemente, non c’è concorrenza. Chi vende scarsa qualità può continuare a farlo contando sull’inerzia dei clienti, sulla loro pigrizia a cambiare; il negozio sotto casa offre latte scadente a prezzo alto? Ci sarà sempre il vecchietto che deve andarci. La compagnia di assicurazione alza ogni anno il premio della tua polizza? Conta sul fatto che per cambiare contratto devi avvertire per raccomandata, girare, brigare, e molti di noi sono troppo pigri o indaffarati per farlo.
Poi a volte a questa inerzia si aggiungono delle barriere all’uscita messe lì apposta e che ti rendono difficile se non impossibile la via di fuga. Vuoi cambiare telefonino? Beh se ne compri uno della stessa marca puoi trasferire la rubrica, altrimenti perdi tutto.
Tutto questo pippone per dire che voglio cambiare casa a Taccuino 22. Era un po’ che ci pensavo, ma ora è davvero arrivato il momento. E’ risaputo che Splinder, come piattaforma blog, è una schifezza. L’ho scoperto persino io, da utente poco evoluto, quando ho comunque dovuto combattere con problemi di impaginazione, pubblicità non volute, assenza di qualsiasi tipo di personalizzazione del template, niente statistiche, e ho deciso di passare a Blogspot.
Mi sono poi chiesto, ingenuamente, ma come mai ancora tante persone stanno su Splinder? Sì, la pigrizia a cambiare conta di sicuro, ma cos’altro? E ho scoperto che trasferire un blog da Splinder a un’altra piattaforma non è nemmeno previsto. Come se dicessero, sì, è vero, facciamo schifo, ma è meglio se rimani con noi, sappi che non è possibile trasferire tutti i post e i commenti fatti fin’ora su un altro blog. Come la storia del telefonino e della rubrica. Come se cambiassi casa e mi dicessero che è vero, i mobili sono tuoi, ma li devi lasciare nella vecchia casa perché ti cambiamo la serratura alla porta.
Quindi, ancora più decisamente, da oggi trasloco. Il mio nuovo indirizzo sarà http://taccuino22.blogspot.com/, spero aggiorniate i vostri feed e tutte le cosette che avete, altrimenti pazienza, non credo di perdere schiere di lettori.
Per quanto riguarda i vecchi post ho deciso che farò come per una casa dalla quale non mi fanno portar via i miei mobili dalla porta: entrerò dalla finestra durante la notte, li smonterò a mano pezzo per pezzo e li rimonterò nella nuova casa. Tradotto in blogghese significa che per ora rimangono al vecchio indirizzo, poi, quando ne avrò tempo, cercherò di trasferirli manualmente (copia e incolla) sul nuovo, con le date originali. Proverò anche a trasferire alcuni dei commenti che più mi hanno stimolato il gargarozzo (o anche tutti), perché credo che in molti casi siano parte integrante dei post. Dei commenti lascerò immutate nome e URL dell’autore, dove non anonimo. Purtroppo non riuscirò a inserire la data originale, spero non me ne vogliano gli autori.
La mia velocità di trasferimento a mano è al massimo di due post al giorno, conto di finire in qualche mese. Immagino resisterete.

domenica 6 novembre 2011

Benvenuti

Questa è la nuova casa di Taccuino 22.
Questo è l’indirizzo della vecchia http://aaqui.splinder.com/ sul quale troverete tutti i post e i commenti pubblicati finora.
Nei prossimi mesi cercherò di copiare su Blogger tutti i post. Per ora accontentatevi.

lunedì 31 ottobre 2011

Tergicristalli parlanti

Avete notato anche voi che da qualche tempo molte auto parcheggiate in maniera eufemisticamente fantasiosa, per non dire da cani, hanno le spazzole tergicristalli sollevate? All’inizio non ci facevo troppo caso, poi mi è capitato di osservare una scenetta che mi ha aperto gli occhi: un distinto signore, dopo avere fatto tre manovre per svoltare su una stradina evitando di urtare un grosso SUV posteggiato arrogantemente quasi in mezzo alla carreggiata, ha accostato la sua auto, è sceso e, abbastanza meccanicamente, ha alzato entrambi i tergicristalli anteriori del SUV, risalendo poi sulla sua vettura e allontanandosi. Da allora ho notato parecchie altre vetture in seconda fila, sulle strisce pedonali, sui marciapiedi, in prossimità di incroci, insomma parcheggiate a cacchio, con le spazzole alzate.
Ecco cos’è: si tratta di un segnale, un messaggio al guidatore arrogante in quel momento assente, una sorta di codice che vuol dire “guarda che hai parcheggiato di schifo”: quando il buzzurro tornerà a prendere la propria vettura troverà il segnale, si presuppone lo sappia interpretare, e capirà di aver esagerato con il menefreghismo stavolta, e che qualcuno non ha gradito. E’ inoltre uno strumento di gratificazione (dai, un minimo…) anche per la vittima dello sgarbo, che avrà la consapevolezza di aver battuto il pugno, di non aver lasciato correre, di essersi in qualche modo ribellato alla situazione, pur senza atti vandalici, senza parolacce, senza escandescenze. Un civile segnale che non provoca effetti irreparabili, solo un decisa comunicazione. Si tratta solo di apprendere tutti il nuovo linguaggio. Certo, non mi aspetto che il cafone cambi definitivamente il suo sistema di valori solo perché ha trovato i tergicristalli sollevati, anzi con tutta probabilità parcheggerà male altre volte. Ma questi segnali funzionano così, pian piano diventano linguaggio comune e in men che non si dica avere il tergicristallo alzato si muterà in un’onta, in una cosa di cui non andar fieri, mentre il contrario si trasformerà in vanto: “figliolo, io nella mia vita non ho mai avuto un solo tergicristallo alzato da chicchessia, sappilo”. Un impatto potenziale da non sottovalutare, alla lunga. Potrebbe essere l'inizio di una rivoluzione.

sabato 29 ottobre 2011

Gita allo zoo

Mi piace andare allo zoo. Soprattutto perchè ora si chiama bioparco, e significa che gli animali non sono chiusi in semplici gabbie ma accolti all'interno di piccoli ambienti naturali ricostruiti con cura e rispetto delle loro peculiarità. Lo spazio che hanno a disposizione non è per nulla esiguo: se prendiamo ad esempio gli orsi, beh, credo abbiano almeno cinquecento metri quadri comprensivi di piscina, cascate e boschetto per nascondersi alla vista dei visitatori, una condizione di vita decisamente migliore di quella di molti umani. Poche cose sono preziose quanto capire e continuare ad essere sbalorditi  dalla complessità e dalla ricchezza biologica del mondo in cui viviamo, e lo zoo mi offre una meravigliosa occasione per insegnarlo alle mie figlie.
Non sono d'accordo con chi dice che gli animali qui soffrono perchè non sono liberi e non possono correre e cacciare come farebbero nel loro ambiente. Sofia l'elefante, Petronilla l'orango, i leoni, gli ippopotami, e la stragrande maggioranza degli animali sono nati all'interno di questi diciassette ettari inaugurati nel 1911. Non hanno mai conosciuto altro che questa comoda, sicura, routinaria e rassicurante esistenza nello zoo di Roma. E sono molto più utili alla nostra e alla loro specie rispetto a quanto possano essere i loro simili in libertà. Sofia ha quarant'anni: quante generazioni di bambini osservandola hanno imparato qualcosa sugli elefanti, sulla biodiversità, sulla grandezza e l'armonia della natura? Sofia ha fatto cultura, sicuramente più della maggior parte degli umani che conosco. Un bimbo che l'ha conosciuta ha un motivo in più degli altri per salvaguardare il mondo in cui temporaneamente alloggia, e più difficilmente da grande acquisterà un fermacarte di avorio, se gli si presenterà l'occasione. Sofia aiuta la sua specie e la nostra molto più di quanto potrebbe mai fare in libertà. Non mi pare poco.

martedì 25 ottobre 2011

La congettura di Babbo Natale

Mia figlia V. ha sei anni e crede a Babbo Natale.
Fin qui nulla di strano, i bimbi credono a quello che i grandi raccontano loro, la capacità critica di analizzare i fatti senza lasciarsi influenzare dalla tradizione e dalle voci del popolo arriva solo dopo, se arriva. E poi credere a Babbo Natale è anche una buona spiegazione per alcuni fatti che non si riescono a spiegare altrimenti: chi porta tutti quei regali? Chi è quel signore grasso vestito di rosso che campeggia sui cartelloni pubblicitari? E, soprattutto, se ci credono tutti ci sarà un motivo, no? E quindi quella di Babbo Natale è una congettura accettata all’unanimità (perlomeno nel mondo dei bimbi).
La compagna di banco di mia figlia, E., qualche settimana fa ha cominciato a sollevare dei dubbi, ha individuato alcuni elementi che si scontrano con la congettura di Babbo Natale. Secondo lei è difficile portare in una sola notte regali a tutti i bimbi del mondo, i bimbi sono davvero tanti. E poi E. non si spiega come facciano le renne a volare, le ha viste allo zoo e le sono sembrate tutt’altro che leggére e sicuramente prive di ali. E. ha raccolto degli elementi che ritiene oggettivi e ha avanzato un’ipotesi alternativa a quella classica: lei crede che i regali vengano portati da zii, nonni e genitori, e che Babbo Natale (è dura da scrivere, ma riporto solo l’ipotesi di E.) non esista. E. ritiene che quest’ipotesi si adatti meglio ai fenomeni osservati, e renda superfluo ricorrere a sovvertimenti temporanei delle leggi di natura (estensione del tempo della notte di Natale e renne che volano). Se si postula la non esistenza di Babbo Natale, o perlomeno la sua estraneità alla consegna dei regali, tutto è più semplice. Non c’è nemmeno bisogno dell’efficiente quanto anacronistico servizio postale che permette la comunicazione dei desideri dei bimbi. Tutto fila liscio senza troppe complicazioni. Ad E. tutto questo sembrava lampante, almeno fino a ieri.
Ma purtroppo E. è rimasta sola. La congettura di Babbo Natale, sostenuta all’unanimità dal resto dei bimbi nonostante le ragionevoli obiezioni sollevate da E., è ancora il sistema di spiegazione della realtà universalmente accettato in classe. La piccola E. è stata all’inizio trattata con incredulità, poi è stata sbeffeggiata e infine anche isolata in qualche gioco. Ma E. è un animale sociale, e ne soffre.
Stamattina a colazione mia figlia V. mi ha detto che ora anche E. crede a Babbo Natale. Non è riuscita a rimanere sola per molto, vuole far parte del gruppo, vuole che gli altri la considerino una di loro.
A quelle condizioni forse avrei fatto lo stesso.